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La “società dei due terzi” di Renzi

Nelle carte antiche le terre sconosciute venivano indicate con “hic sunt leones”, qui sono i leoni. Noi siamo in un mondo pieno di leoni. Non ci sono soltanto il terrorismo di matrice islamista e la polveriera mediorientale. Ci sono anche il boom demografico, le pressioni migratorie, l’esplosione dei particolarismi etnici, un devastante scontro di civiltà, una globalizzazione in cui si allarga la forbice della ricchezza e del potere tra i popoli e gli individui. Ritorna così in primo piano il tema dei diritti, vecchi e nuovi. Dei diritti umani, dei diritti del cittadino, dei diritti del lavoratore. E di quelli rivendicati dalle pacifiche rivoluzioni novecentesche delle donne, degli ecologisti, della scienza e della tecnica. Essi coprono ormai tutto l’arco della vita- la nascita, l’esistenza, la morte- e, anzi, si spingono al prima e al dopo.

In questo quadro, la lotta competitiva nella produzione, nel commercio e nella finanza mondiale ha rimesso radicalmente in discussione certezze che sembravano granitiche. Ciò vale per quelle aspettative che Norberto Bobbio ha definito diritti della terza e della quarta generazione. A maggior ragione vale per i diritti sociali, la cui precarietà- sia sotto il profilo normativo che della loro effettività- è oggi evidente. Come salvaguardarli e espanderli, fino ai limiti estremi consentiti dalle compatibilità imposte dal mercato, è il problema che resta aperto per le forze riformiste europee. Il vecchio modello distributivo socialdemocratico è stato inesorabilmente archiviato dai fatti, e i fatti hanno la testa dura. Il Pd di Matteo Renzi lo ha capito, e ha cercato di battere nuove strade nella mutata realtà del lavoro. Ci è riuscito, ci sta riuscendo? Non è facile rispondere. A parte sparute eccezioni, la sinistra italiana è sempre stata- se è concessa la battuta- inguaribilmente hegeliana. Nel senso che ha sempre visto nello Stato lo strumento cardine per l’emancipazione delle classi subalterne.

Con il passaggio di secolo, questo nucleo regolativo dell’esperienza di quello che un tempo si chiamava movimento operaio ha definitivamente esaurito la sua carica propulsiva. Inoltre, sul piano dei risultati spesso si è rovesciato nel suo contrario, con un uso della spesa pubblica che ha ampliato il ventaglio delle diseguaglianze sociali. Che fare, dunque? Non si tratta certo di aderire alla vulgata dominante che predica la formula banale “meno Stato e più mercato”. Si tratta però di rompere quel dogma che considera socialità e statalismo come dimensioni complementari, se non coincidenti. Un dogma a lungo quasi inossidabile a sinistra, in tutte le sue componenti storiche e culturali.

Così inossidabile da impedire fin qui l’attuazione di un coraggioso programma di liberalizzazioni dell’economia nazionale, capace anche di valorizzare la forza pragmatica del mutuo soccorso e le virtù positive dell’associazionismo democratico, fuori dall’universalità astratta dei grandi apparati burocratici del welfare. So bene che il richiamo a una tradizione che risale agli albori del socialismo e del sindaclismo confederale può essere sbeffeggiato da chi si fa scudo di un realismo reso arrogante dal naufragio di ogni progettualità politica. Si pensi tuttavia alle trasformazioni profonde del lavoro, della demografia, del sistema industriale, della famiglia. Ne risultano sconvolti non solo i fondamenti della cittadinanza, ma lo stesso principio di solidarietà su cui si basa lo stare insieme di un popolo. Ora, nessuna persona ragionevole può immaginare che quel principio si ricostruisca attraverso le antiche garanzie amministrative dello Stato-provvidenza. Beninteso, non siamo più nella “società dei due terzi” descritta dal segretario dell’Spd Peter Glotz negli anni Ottanta del secolo scorso.

Ma la prospettiva strategica di una coalizione riformista nella “società globale del rischio”, per riprendere l’espressione coniata da Ulrich Beck, dovrebbe restare pur sempre quella di un patto che ai deboli unisca il maggior numero possibile di forti. Ecco, ho l’impressione che il presidente del Consiglio voglia invece unire ai forti il maggior numero possibile di deboli. Non è la stessa cosa. In politica, invertendo l’ordine dei fattori il prodotto cambia. E può riservare delle sorprese nelle urne. Forse le vedremo non solo alle prossime elezioni comunali, ma nello stesso referendum confermativo delle riforme istituzionali.

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