L’Editorial Board del New York Times ha pubblicato un editoriale preoccupato sull’escalation di intelligence e coordinamento militare attorno alla Libia: nel pezzo si invita l’Amministrazione americana a riflettere e il Congresso a valutare attentamente prima di dare il via libera ad un intervento armato contro lo Stato islamico. «I funzionari dell’amministrazione dicono che la campagna in Libia potrebbe iniziare nel giro di settimane ─ scrive il NYTimes ─ Essi prevedono che sarebbe stata condotta con l’aiuto di un manipolo di alleati europei, tra cui Gran Bretagna, Francia e Italia». Questo genere di articoli sono importanti non solo per le informazioni che contengono, ma perché rappresentano il pensiero editoriale del giornale, che è il più seguito d’America e uno dei più importanti del mondo, e dunque in grado di muovere l’opinione pubblica.
«Fonti vicine al presidente del Consiglio» avevano detto tre giorni fa a Vincenzo Nigro di Repubblica che «ogni azione degli americani è concordata con noi» e «la sintesi che arriva da Palazzo Chigi dopo la notizia dell’accelerazione dei piani d’attacco Usa in Libia svela la sostanza del patto. L’Italia è pronta ad azioni militari: se sarà necessario, agiremo con i nostri alleati, su richiesta del governo di Tripoli». Aggiunge Nigro: «Il livello di minaccia militare dell’Isis in Libia ha raggiunto una pericolosità insostenibile, tanto da spingere il premier Renzi a lasciarsi le mani libere per diversi scenari». “Mani libere” potrebbe significare che un’azione militare fatta di raid aerei e missioni puntuali di commandos, come quella di cui aveva parlato giorni fa il capo delle Forze armate americane, il generale Joseph Dunford, potrebbe arrivare anche senza l’autorizzazione del neo-governo libico; circostanza ritenuta finora conditio sine qua non dal governo italiano (pochi giorni fa il ministro della Difesa Roberta Pinotti l’ha ripetuta ufficialmente a margine della riunione “anti-Isis” che s’è tenuta a Parigi) ma che sembra man mano perdere di consistenza.
Anche perché lunedì il governo di Tobruk ha respinto l’esecutivo proposto da Fayez Serraj, il premier incaricato di riportare la concordia nazionale sotto egida Onu. Non è stato un “no” definitivo, ma incentrato soltanto sul numero e sulle nomine dei ministri proposti da Serraj: Tobruk ha consegnato al futuro primo ministro e al cosiddetto Consiglio di Presidenza una incarico di altri 10 giorni per costruire una nuova squadra di governo. Il voto del parlamento cirenaico si rende necessario perché questo è quello che gode del riconoscimento internazionale, mentre l’altro a Tripoli, il General Nation Congress (GNC), non solo non è riconosciuto dagli organismi globali, ma pare che il suo presidente Nuri Abu Sahmain e il primo ministro Khalifa Ghwell possano presto finire sotto sanzioni dell’Unione Europea. A rivelarlo è una fonte della Reuters che spiega: «Vogliamo che il processo politico per andare avanti, ma siamo anche pronti a penalizzare chi vuole ostacolarlo». Alwast, sito web che si occupa di Libia, sostiene che nel mirino dell’UE potrebbe esserci anche il presidente del parlamento di Tobruk, Aguila Saleh, politico scettico sull’implementazione dell’accordo Onu.
I MINISTRI E IL NODO HAFTAR
La sorte del generale Haftar, l’uomo forte di Tobruk che ha attualmente in mano il controllo dell’esercito, è uno dei punti di snodo del blocco attuale. La metà della Libia, quella tripolitana, prova per lui un sentimento tra l’odio e il disprezzo, per questo non è stato scelto come ministro della Difesa: è una personalità divisiva in un momento in cui serve concordia. Al suo posto Serraj ha convocato Mahdi al Barghati, generale (l’unico militare presente nella lista dei 32 esecutivi presentata e respinta) che comanda la Brigata 204 di Bengasi, alleato fino a poco tempo fa di Haftar. Sembra sia stato proprio Haftar a far porre il veto al governo di Tobruk: per il momento la struttura di governo non prevede un comandante delle Forze armate con incarichi esecutivi, ma il ruolo militare passerebbe in mano al Consiglio di presidenza (passaggio previsto dall’articolo 8 dell’accordo di Skhirat). Inutile aggiungere che l’accentratore Haftar ha piani diversi sotto questo punto di vista, e cioè vorrebbe essere lui a guidare la Difesa e vorrebbe farlo unilateralmente, perciò pressa Tobruk. Venerdì scorso una delegazione italiana è atterrata all’aeroporto di al Bayda per incontrare il generalissimo ad al Marj (90 km a nordest di Bengazi) e convincerlo su una mediazione; lo stesso sta facendo l’Egitto, che finora è stato insieme agli Emirati Arabi il principale sponsor del governo di Tobruk e soprattutto di Haftar.
Il problema non è semplicemente Haftar in sé, ma il sistema di potere che magnetizza, lascia intendere Agency France Press in un’analisi. Pare comunque che l’uomo forte di Tobruk stia perdendo qualche colpo anche in casa: il 21 gennaio, il Parlamento di Tobruk ha istituito una commissione d’inchiesta sulla condotta del generale; l’organismo è nato alla luce delle denunce fatte da parte di colui che era il suo portavoce, il colonnello Mohammed al Hijazi, che ha accusato Haftar di essere corrotto (avrebbe trasferito soldi in tre paesi arabi dove vivono i suoi figli). L’evoluzione dell’indagine non sarà facile, perché gli inquirenti saranno composti da elementi pro e anti Haftar.
Altro guaio sui ministri, è la nomina agli Interni: Serraj ha pensato a Saleh Aref al Khuja, uomo della componente “islamica” del governo (come altri 12 membri), che però sembra non sia molto ben visto all’interno delle forze di polizia. Sarebbero queste, insieme all’esercito, l’oggetto di un più ampio intervento militare occidentale, con il fine di garantirne il training avanzato.
I PREPARATIVI DELLA MISSIONE
Lo spazio lasciato aperto da Tobruk per ulteriori negoziati ─ l’accordo politico di Skhirat è stato infatti approvato con 97 voti favorevoli su 104 e il delegato Onu Martin Kobler ha aperto a ulteriori modifiche, cosa in precedenza sempre esclusa ─, si pone sulla linea di soluzione “politica” italiana, mentre un fronte “franco-americano-britannico” insiste sulla necessità di intervenire subito, anche senza governo di unità, per colpire e bloccare l’avanzata dello Stato islamico prima che possa espandersi a livello regionale (cioè nel resto del Maghreb e nel Sahel, fin giù alla Nigeria dove è presente una provincia guidata dagli uomini ex Bok Harama).
È possibile che la strategia dell’Isis attualmente in corso sia quella di incrementare il controllo di territorio prima di un intervento militare occidentale, che si fa sempre più imminente mentre si moltiplicano segnalazioni sulla presenza di team delle forze speciali francesi, americane, inglesi e italiane già sul campo per raccogliere informazioni di intelligence e preparare la strade a possibili blitz a terra e raid aerei.
Il 19 gennaio lo Stato maggiore della Difesa italiana e il Cofs (il comando interforce per le operazioni speciali) si sono riuniti alla Farnesina proprio per decidere le tattiche e la strategia da utilizzare in Libia, rivelano fonti interne ai media italiani. Mentre una settimana prima un altro vertice di alto livello si era tenuto a palazzo Chigi, alla presenza dei vertici militari e dei servizi, dei ministri degli Esteri e Difesa e del presidente del Consiglio. Sono segnali che qualcosa sta per succedere, o meglio, che qualcosa già in corso passerà presto dalla fase di pianificazione coperta ad attività “aperte”.
Intanto dalla Libia le notizie sono sempre ambigue: per esempio, vertici politici di Misurata hanno raccontato al New York Times che ci sono state visite ufficiose delle forze speciali occidentali che hanno preso contatti in città, e lo stesso ha detto il capo dell’intelligence cittadina Ismail Shukri al Telegraph, guardando di buon occhio un aiuto esterno contro il Califfo. Ma altri la vedono differentemente: Ahmed Mateeq, neo-nominato vice primo ministro da Serraj, intervistato da Colin Freeman (capo corrispondente esteri del Telegraph) dice che la Libia non ha bisogno di soldati stranieri sul proprio territorio per sconfiggere i baghdadisti, nemmeno per la formazione delle proprie forze, ma che «l’aiuto occidentale sarà il benvenuto sotto il punto di vista tecnico e logistico» (cioè, chiede che gli organismi internazionali sblocchino ai libici l’embargo sugli acquisti di armamenti). Diverse milizie di Tripoli hanno sfilato nella serata di martedì lungo le vie della città per manifestare la contrarietà all’intervento militare straniero e alla possibilità dei sanzioni imposte dall’Europa ai vertici del governo locale.
La sintesi dell’editoriale del New York Times è tutta qui: il rischio è di infilarsi in uno scenario troppo complesso e articolato, e senza garanzie sul futuro il pericolo è di lanciarsi all’avventura.