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Perché Renzi gongola per la coppia referendaria Berlusconi-Di Pietro contro di lui

Matteo Renzi non ha dovuto aspettare molto per cominciare a godersi lo spettacolo “divertente” preannunciato pochi giorni fa davanti alla direzione del Pd parlando della campagna referendaria contro la sua riforma costituzionale condotta “insieme da Berlusconi e Magistratura Democratica”.

Il Fuori Onda domenicale de La 7 ha offerto una curiosa assonanza a distanza contro la riforma costituzionale e il presidente del Consiglio fra Silvio Berlusconi, colto al volo fra la scorta e gli amici, e qualcuno per lui ancora più distante e indigesto del segretario della celebre corrente di sinistra delle toghe: Antonio Di Pietro. Quello che nell’autunno del 1994, dopo che l’allora presidente del Consiglio aveva ricevuto a mezzo stampa l’invito giudiziario a comparire per un procedimento sull’affare Telepiù, si propose al capo della Procura di Milano, Francesco Saverio Borrelli, per “sfasciare” l’indagato con uno dei suoi collaudati interrogatori. Cosa che lo stesso Borrelli poi rivelò ai giudici di Brescia, in una delle tante cause promosse o subite dall’ormai ex sostituto procuratore Di Pietro, già entrato in politica come ministro dei lavori pubblici del primo governo di Romano Prodi.

Borrelli era quel giorno, a Brescia, molto furente per avere sentito Berlusconi raccontare di recente in televisione di avere ricevuto Di Pietro a casa, qualche tempo dopo quell’invito a comparire e le sue improvvise dimissioni da magistrato, raccogliendone la confidenza di non avere condiviso o partecipato alla decisione della Procura milanese di indagarlo e poi processarlo per presunta violazione della legge Mammì sulla disciplina delle concessioni televisive.

L’allora capo della Procura di Milano aveva inutilmente reclamato una smentita del suo ex sostituto. E minacciato, secondo cronache giudiziarie non smentite, di cacciare Di Pietro “per le scale” del tribunale se avesse osato tornare a trovare gli ex colleghi, come “Tonino” soleva fare ogni tanto per rinfrescarsi la memoria e riproporla al pubblico dei suoi potenziali elettori.

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Quell’invito a comparire, sopraggiunto mentre il presidente del Consiglio ospitava a Napoli una conferenza delle Nazioni Unite sulla lotta alla malavita internazionale, finì per accelerare il deterioramento del primo governo di Berlusconi. Che era incalzato dalle polemiche dell’alleato Umberto Bossi sul tema già allora caldo della riforma delle pensioni e su altro. Fu dopo quell’iniziativa giudiziaria che Bossi passò dalle proteste alla crisi.

Per quanto Di Pietro avesse poi preso, privatamente con Berlusconi, le distanze da quell’invito a comparire, cominciò allora tra la Procura di Milano e lo stesso Berlusconi un durissimo conflitto, ancora aperto, di fronte al quale l’ex campione di “Mani pulite” non restò per niente neutrale.

Berlusconi, al governo o all’opposizione, prese a indicare in Di Pietro la rappresentazione fisica del giustizialismo e dell’uso dei processi a fini politici, e l’altro a indicarlo come il campione del male, l’erede e il prosecutore del malaffare della cosiddetta Prima Repubblica.

Ebbene, al Fuori Onda serale de La 7 i due, sia pure a distanza dallo studio, hanno liquidato all’unisono la riforma costituzionale in corso di approvazione come il prodotto di un governo sprovvisto, come i due che lo avevano preceduto, di una investitura elettorale, e il mezzo scelto da Renzi di instaurare un regime personale. Berlusconi ha definito il presidente del Consiglio e segretario del Pd, in particolare, “un clandestino della democrazia” auspicandone, come Di Pietro dalla sua casa di campagna, nella cornice di un caminetto in pietra, la bocciatura nel referendum.  Con le conseguenti dimissioni promesse, d’altronde, dallo stesso Renzi.

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Più comprensivo col presidente del Consiglio, sia pure dissentendo anche lui dalla sua riforma costituzionale, è stato nello studio televisivo de La 7 l’ex ministro democristianissimo Paolo Cirino Pomicino. Che ha riconosciuto al segretario del Pd il merito sia di provenire in fondo pure lui dalla Dc, sia di avere cominciato a restituire alla politica il primato troppo a lungo ceduto negli anni della cosiddetta Seconda Repubblica alla finanza e alla magistratura. E quando Di Pietro, sempre collegato dalla campagna, ha riproposto la storia dei politici degli anni Ottanta irriducibilmente corrotti, responsabili anche del grandissimo debito pubblico e delle perduranti difficoltà economiche del Paese, Pomicino lo ha mandato letteralmente a quel paese, mettendo a durissima prova le sue coronarie e  alternando il “mascalzone” all’”amico”. Un amico diventato al capezzale di un letto d’ospedale, quando il plurimputato Pomicino per Tangentopoli si fece promettere da Di Pietro un’orazione funebre riabilitatrice. Accadeva curiosamente anche questo nella “terribile” stagione giudiziaria evocata in tv, in questi giorni, con il fumettone Sky titolato 1992, e nelle edicole con il libro di Mattia Feltri titolato 1993.

Lo scontro fra Pomicino e Di Pietro si è concluso con la sfida intrigante del primo al secondo a confrontare in pubblico i loro “stati patrimoniali” per rilevare chi dei due sia uscito dalla politica meglio di come ci fosse entrato, ricavandone cioè i maggiori profitti. Di Pietro se l’è cavata con un sorriso canzonatorio che ha forse deluso il suo pubblico, o quel che gliene rimane.

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