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Perché Renzi può alzare la voce in Europa

Nell’ultimo editoriale del 2015 il direttore Michele Arnese si interrogava su come gli sfoghi di Matteo Renzi sulla politica europea si potessero trasformare in fatti e, soprattutto, se ci fossero degli alleati sulla strategia di Roma. Domande a cui è difficile rispondere, almeno per il momento, ma che sottendono ad uno scenario che in pochi mesi è profondamente mutato.

Per prima cosa, come ha anche ricordato dalle colonne de Il Foglio il consigliere di Palazzo Chigi Marco Piantini, i numeri all’interno del Consiglio Europeo sono cambiati. Mentre due anni fa (quando è stato deciso l’assetto quinquennale delle istituzioni europee) i primi ministri che afferivano al PPE erano maggioritari, oggi sia i popolari che i socialisti hanno 9 capi di governo e che in termini di voto ponderato diventano il 34,7% per il PSE e il 34,4% per il PPE. E questo dato il leader del principale partito dei socialisti europei, lo conosce bene.

Altro elemento chiave è quello relativo a come il premier-segretario ha giocato le sue carte durante il valzer delle nomine europee: il pentimento di aver puntato tutto sull’incarico di Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza per Federica Mogherini (che secondo la ricostruzione de La Stampa di sabato scorso non parla con il primo ministro italiano da un anno), i soli 3 direttori generali che si hanno in Commissione Europea (rispetto ai 5 tedeschi e francesi e 4 spagnoli) e, per ultimo, l’assenza di un italiano nel gabinetto del presidente della Commissione.

Tutte queste valutazioni, aggiungendo anche il forte risentimento verso l’Unione Europea rintracciabile dai sondaggi e dalla crescita dei partiti euroscettici di tutta l’Unione, hanno portato Renzi ad alzare il tiro e chiedere al tavolo dei leader europei dello stato di salute dell’EU. Sulla stessa linea si è posizionato il capogruppo dei socialisti in Parlamento Europeo Gianni Pittella che, durante la prima riunione di gruppo del nuovo anno, ha detto che la fiducia a Juncker non è eterna.

Ma quali possono essere gli obiettivi nel breve periodo dei democratici presso le istituzioni europee?

Sicuramente la valutazione positiva sulla legge di stabilità approvata lo scorso mese che nessun osservatore internazionale dà per scontata.

Poi sicuramente un piano per rimpinguare il numero dei funzionari apicali della Commissione ed è probabilmente questa la principale missione che avrà il nuovo ambasciatore italiano presso l’Unione Europea in sostituzione di Stefano Sannino, dato in uscita da mesi ma del quale è difficile trovare un sostituto.

Per quanto riguarda invece un nuovo innesto italiano nel gabinetto di Juncker, sembra che, anche grazie alla mobilitazione del sottosegretario Sandro Gozi, alla fine (seppur non richiesto dalle norme europee) ci sarà spazio per un nostro connazionale nel team del presidente dell’esecutivo europeo.

Tema invece più difficile è quello dello scacchiere delle alleanze: per quanto la Cancelliera tedesca abbia perso nel giro di pochi mesi gli alleati al governo di Spagna, Portogallo e Polonia, sembra essere ancora l’asse franco-tedesco quello che regge le sorti del continente e la recente uscita di Pierre Moscovici (commissario agli affari economici e monetari socialista, da sempre vicino ad Hollande) “l’Italia non critichi è il Paese che ha avuto di più”, indica che, nonostante le appartenenze politiche, nel risiko europeo c’è chi difficilmente si farà spaventare dall’offensiva italiana alla rigidità e all’austerity.

L’ex segretario di stato americano Henry Kissinger scrive nel suo ultimo libro “Ordine Mondiale” che sono proprio le battaglie all’interno dell’Unione Europea che affermano la tendenza pluralista storicamente rappresentata dal Vecchio Continente. Renzi ha deciso di non nascondere le sue divergenti valutazioni, ma senza obiettivi chiari e alleati solidi le sue richieste non riusciranno a scalfire un’impalcatura fatta di trattati ultradecennali e alleanze radicate. Neanche alzando la voce, o il dito, durante i summit.

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