«Le innovazioni digitali ci presentano un paradosso. Non stiamo più semplicemente pensando al rapporto costi/benefici di “privacy contro sicurezza”, ma piuttosto “sicurezza contro sicurezza”». In un editoriale sul Washington Post, il presidente del Comitato per la Homeland Security della Camera americana, il repubblicano Michael McCaul, e il democratico Mark Warner, membro dei comitati Banche, Budget e Intelligence del Senato, hanno affrontato un tema spinoso: fino a che punto si deve preservare la sicurezza dei cittadini, senza rischiare di demolire l’impalcatura liberale di un Paese.
LA COMMISSIONE
McCaul e Warner affrontano la questione in modo costruttivo, circostanza che alcuni osservatori hanno definito “insolita” sia per il periodo di campagna elettorale sia per le abituali distanze di visioni su temi di sicurezza e libertà tra Repubblicani, più duri e spesso istintivi, e Democratici, più aperti ma a volte troppo riflessivi secondo i media Usa. Entrambi credono che il Congresso americano debba avere un ruolo proattivo immediatamente, «perché non possiamo aspettare il prossimo attacco per delineare le nostre opzioni». Per questo propongono l’istituzione di una Commissione permanente che si occupi di affrontare le sfide di sicurezza e tecnologia nell’era digitale, composta da esperti convocati in rappresentanza di tutti gli interessi in gioco: dal settore della tecnologia, al mondo legale, all’informatica e la crittografia, il mondo accademico, quello delle libertà civili e dei difensori della privacy, fino alle forze dell’ordine e alla comunità di intelligence. Si tratta di un tentativo di andare oltre all’idea proposta dal candidato alle primarie repubblicane per le presidenziali americane Donald Trump, “spegnere internet perché è lì che avviene il grosso del reclutamento dell’Isis”: proposta che però, scrive in un articolo Fabio Chiusi sul sito Valigia Blu, ha trovato consensi anche in ali più liberali del panorama politico mondiale.
IL CYBER CALIFFATO
La diffusione delle istanze radicali avviene per lo più via internet. Esiste il contatto diretto, in molti casi, ma la fase di indottrinamento online è ritenuta da tutti gli esperti un passaggio cruciale per la scelta del jihad (a spiegarlo è l’ultimo report del Program on extremism della George Washington University). Secondo un altro studio pubblicato recentemente a firma di J.M. Berger e Jonathon Morgan del think tank Brookings Institution, alla fine del 2014 gli account Twitter attivi riconducibili allo Stato Islamico e ai suoi sostenitori erano 46mila. Le stime descritte dai due autori parlano di 500 fino a 2mila utenti di rilievo dell’Isis su Twitter: elementi che hanno la capacità di trascinare gli altri, creare proseliti, mantenere alta l’attenzione sul gruppo estremista.
NUOVI SEGNALI
Ma il ruolo della messaggistica online ha avuto peso anche in alcuni contesti operativi: basti pensare al “Go!” per l’inizio dell’attacco a Parigi con cui Abdelhamid Abaaoud, il “comandante militare” dell’azione, ha dato il via ai compagni su WhatsApp. Oppure alle rivendicazioni in diretta Twitter viste nel caso dell’attentato sventato a Garland, in Texas, o a quello di San Bernardino, in California. «Il primo segno di un attacco, ormai potrebbe essere un hashtag su Twitter» scrivono i due politici sul WaPo.
REGOLE DI GESTIONE
Gruppi come lo Stato islamico hanno un rapporto con la sicurezza delle comunicazioni quasi maniacale: ormai i terroristi non si muovono più nelle grotte del Waziristan e non parlano più tramite corrieri, ma sfruttano tutti i nodi dei comuni network comunicativi. I baghdadisti hanno redatto un manuale d’uso sul come comportarsi online e come usare la crittografia, una sorta di social media policy ufficiale. Ricordano ai loro membri di controllare sempre i “servizi di localizzazione” per assicurarsi che i loro telefoni non rivelino dove si trovano, di non aprire link se non se ne conosce il mittente, utilizzare VPN (virtual private network, rete di comunicazione privata) e di cambiare l’IP, indirizzo di connessione, continuamente, così come telefoni e computer, e di evitare l’uso dei messaggi diretti su Twitter. Li esortano, inoltre, a non utilizzare Instagram perché è di proprietà di Facebook, che «ha una cattiva reputazione nella protezione della privacy». E chiedono che nessuno usi Dropbox, perché l’ex segretario di Stato Condoleezza Rice fa parte del suo consiglio di investitori, e Edward Snowden«ha consigliato di non utilizzare il servizio».
UN PROBLEMA COMPLESSO
Il cuore del problema è spiegato nel pezzo pubblicato sul Washington Post: «Gli strumenti che terroristi e criminali stanno usando per nascondere le loro nefandezze, sono gli stessi che gli americani [usano] tutti i giorni per fare acquisti online in sicurezza, comunicare con gli amici e la famiglia, e gestire le proprie attività». Perché «la crittografia è un fondamento del commercio globale, e ha contribuito a migliorare la privacy individuale incommensurabilmente». È per questo che la polizia e l’intelligence ammettono che seguire le azioni virtuali dei terroristi come dei criminali è oggi estremamente difficile e servirebbero misure più forti, anche a costo di ripensare il nostro concetto di privacy.