Il dibattito parlamentare di due giorni non ha presentato grandi novità, se non la conferma della scomparsa politico-culturale del centrodestra di opposizione. Infatti, al di là delle concrete soluzioni adottate dal disegno di legge di riforma, è difficile negare che togliere la fiducia al Senato per evitare nuove impasse come quella accaduta nel 2013, creare un nuovo Senato capace di ridurre i conflitti tra Stato e Regioni, prevedere una corsia preferenziale per il Governo in Parlamento che consenta di limitare l’uso dei decreti, eliminare il Cnel, siano stati obiettivi largamente condivisi dagli schieramenti che hanno avuto vocazione di Governo dal 1994.
E’ un vero peccato vedere invece oggi uno dei due poli su cui ha vissuto da allora il sistema italiano, tranne la piccola parte rimasta al Governo col nuovo centrodestra, bloccato a ripetere passivamente, in sostanza, gli slogan della cultura protestataria dell’assemblearismo e del complesso del tiranno della sinistra di opposizione. Tanto più perché alla fine il potere non conosce vuoti e in assenza di riforme il potere si sposta fatalmente verso derive giudiziarie e giustizialiste: obiettivo rivendicato in anni recenti da quei filoni culturali, ma certo fin qui combattuto dal centrodestra. Un peccato per gli sviluppi futuri del sistema, per il possibile e sollecito ritorno a un’alternanza fisiologica tra almeno due proposte di governo che sarebbe altamente auspicabile.
Il campo del No, infatti, al di là di singole personalità che criticano il testo in nome di altre possibili linee di riforma che, giuste o sbagliate, non ha avuto alcun consenso reale, risulta chiaramente ipotecato sin dall’inizio dal classico conservatorismo e benaltrismo di chi si esenta dal dovere di governare. Impostata così, la campagna referendaria che si svolgerà ad ottobre sembra purtroppo confermare un bipolarismo diverso, con un’unica proposta realmente di governo contro una somma di spezzoni di protesta.
Potremmo quindi assistere, almeno per un certo periodo, a un paradosso di un corpo elettorale che potrebbe approvare col referendum un sistema più semplice, più coerente con un modello di democrazia dell’alternanza, nel momento in cui, invece, il concreto sistema dei partiti non riuscirà ad esprimere almeno due proposte alternative. Nessun dramma: non è sempre vero che in una democrazia dell’alternanza tutti e due i poli siano sempre pronti a competere e, se il sistema ha gli incentivi giusti, prima o poi lo schieramento soccombente impara dai propri errori. Per il rendimento del sistema sarebbe meglio prima che poi.
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