Ripropongo alcune storie di ordinaria follia nei tribunali italiani offerte dalle cronache giudiziarie nell’arco di una sola settimana.
Un professore universitario commette undici anni fa, forse per banali ma impellenti necessità fisiologiche, l’imprudenza di fare la pipì su un cespuglio scandalizzando probabilmente un astante. Al quale non ha la prudenza, o la furbizia, di rispondere come quell’immigrato che tanti anni fa a mia moglie, che gli contestava la stessa cosa a due passi dal Duomo di Milano, chiese: “Perché io non lo posso fare e il tuo cane sì?”. Mia moglie, che portava un cane al guinzaglio proprio per fargli fare la pipì, e anche qualcosa di più, rimase senza parole: non per lo spettacolo dell’uomo che esibiva ancora il suo coso, ma per la prontezza della risposta. E non osò più protestare con altri, immigrati e non, colti in quelle condizioni, neppure quando uno di questi, ubriaco, fece la pipì gridando e scorazzando lungo tutta una strada. Che era via Silvio Pellico.
Ebbene, quel professore, non a Milano ma al sud, incorse in un vigile, o qualcuno del genere, che gli comminò una multa. Pagata la quale, il poveretto pensò di avere liquidato il suo bisogno sotto tutti i profili, anche amministrativi. Non immaginava, il poveretto, che proprio per avere pagato quella multa aveva fornito agli uffici giudiziari l’occasione, addirittura il dovere – si sarebbe poi sentito dire – di aprire un’azione che gli avrebbe rovinato la fedina penale e la carriera. Che è finita – ripeto, dopo 11 anni – con il licenziamento.
E’ andata meglio, sempre al sud, a un funzionario delle imposte abituato a palpeggiare le sue dipendenti, fra una pratica e l’altra, senza abbandonarsi per fortuna a alcun’altra esigenza o emergenza fisiologica. Un giudice gli ha dato dell’immaturo e lo ha assolto, consentendogli di rimanere al suo posto. Le donne adesso provvedano pure a corazzarsi, se proprio non riescono a stargli lontane.
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Un altro dipendente pubblico, questa volta al nord, fra un’aspettativa e l’altra per incarichi elettivi, si becca una condanna definitiva per corruzione, truffa aggravata e violenza privata. L’amministrazione lo licenzia, ma la magistratura ne ordina la riassunzione, e la restituzione dei compensi nel frattempo perduti, con spese e contributi, perché il cambiamento delle mansioni sopraggiunto ai fatti contestatigli avrebbe dovuto bastare ed avanzare per chiudere la vicenda. E garantire i cittadini dal rischio di incorrere in qualche insana tentazione del pregiudicato.
Appartiene a questa serie di storie di ordinaria follia giudiziaria anche la vicenda di Clemente Mastella, costretto otto anni fa alle dimissioni da ministro della Giustizia del secondo ed ultimo governo di Romano Prodi, mentre la moglie finiva agli arresti domiciliari e perdeva la possibilità di svolgere la funzione di presidente del Consiglio regionale della Campania, da una rumorosa indagine giudiziaria per corruzione, concussione ed altro nel Casertano. Che è finita – ripeto, dopo otto anni – col rifiuto del giudice di disporre il processo chiesto dalla Procura trovando troppa indeterminatezza nell’accusa. Un processo che comunque, anche se la Procura dovesse insistere e rendere meno indeterminate e più comprensibili le sue contestazioni, sino ad ottenere il rinvio a giudizio, sarebbe condannato alla prescrizione.
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A questo elenco di ordinarie follie giudiziarie deve aggiungersi qualcosa che non chiamo pazzia per non mancare di rispetto alle persone, e incorrere magari in qualche denuncia di vilipendio, ma che non credo si possa considerare di ordinario senso comune. E’ l’insieme delle solenni, pompose cerimonie d’inaugurazione dell’anno giudiziario, con sfilate di ermellini e simili, bastoni, collane, fregi ed altro, alla presenza delle solite, massime autorità nazionali o locali.
Mi sono chiesto e mi chiedo che cosa abbiano da festeggiare ogni anno tanti magistrati e tante autorità di fronte alla disarmante e ordinaria follia delle storie e storielle prodotte dalle cronache giudiziarie, tipo quelle di pochi giorni fa: gli stessi giorni delle feste celebrate con tutta la solennità della tradizione. Feste scampate per caso, cioè per una imprevista e provvidenziale fuga di notizie, a quella che il vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura ha definito troppo sobriamente una “inopportunità”: una specie di lezione, o testimonianza, di “giustizia riparativa” ad un seminario di formazione delle toghe da parte di due terroristi – Adriana Faranda e Franco Bonisoli – condannati per il sequestro di Aldo Moro, nel 1978, la strage della scorta e l’assassinio dell’ostaggio, dopo 55 giorni di penosa prigionia.
A giustificazione di questa iniziativa, per fortuna annullata all’ultimo momento, si sono portati i buoni rapporti instauratisi fra i due terroristi, o ex terroristi, e i familiari delle loro vittime, o vittime di altri loro compagni di ventura. Vittime che possono naturalmente disporre liberamente dei loro sentimenti, per carità, ma non possono pensare di imporli agli altri: vittime o non vittime dirette di quella orribile stagione di sangue. Sulla quale i terroristi peraltro, pur pentiti, quando si sono davvero pentiti, non hanno aiutato i magistrati, e i cittadini, a capire e conoscere tutta la verità, essendosi tenuti ben stretti i segreti non scoperti dagli inquirenti. I segreti, in particolare, dei complici rimasti impuniti e delle connivenze incontrate nelle sfere alte e basse dei servizi e, più in generale, dello Stato. Sta fortunatamente cercando di provvedervi la nuova, ennesima commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro Moro.