Skip to main content

DISPONIBILI GLI ULTIMI NUMERI DELLE NOSTRE RIVISTE.

 

ultima rivista formiche
ultima rivista airpress

Chi vincerà le primarie Usa

Emilio Iodice, Giampiero Gramaglia e Massimo Teodori

Hillary Clinton per i democratici e Marco Rubio per i Repubblicani. Questo il pronostico per le primarie Usa che viene dal Centro Studi Americani a Roma, dove martedì pomeriggio, in occasione delle primarie in Iowa, si è parlato delle primarie per le presidenziali del 2016 e di come il modello elettorale statunitense sia diverso da quello italiano. Moderati da Giampiero Gramaglia (vice direttore di LaPresse), ne hanno discusso Massimo Teodori, che ha tenuto una lectio magistralis sul sistema elettorale americano e altri ospiti, tra i quali Peter Alegi (vicepresidente del Centro Studi Americani), Cristina Posa (membro del Dipartimento di Giustizia addetto alla Ambasciata degli Stati Uniti a Roma) ed Emilio Iodice (vicepresidente della Loyola University di Chicago).

CHI C’ERA AL CENTRO STUDI AMERICANI PER PARLARE DI PRIMARIE E MODELLO ELETTORALE USA. LE FOTO DI PIZZI

La prima grande differenza del sistema elettorale Usa con quello italiano, è emerso, è che le elezioni presidenziali statunitensi durano 10 mesi: le primarie iniziano a febbraio e il voto è a novembre. Alle primarie – spiega il professor Teodori – votano solo i registrati per il rispettivo partito: una persona che vuole votare alle primarie democratiche deve registrarsi. Poi può anche registrarsi e votare a quelle repubblicane, ma poi non può tornare indietro e rivotare per i democratici. “Questo serve ad avere una platea elettorale identificata, non come da noi che alle primarie vota chi vuole, senza alcun controllo”, spiega Teodori. In questa prima fase, protagonisti sono gli Stati, perché le regole possono cambiare, anche di poco, da Stato a Stato. Possono esserci primarie aperte o primarie chiuse, dove votano solo i caucus di quel partito. In Iowa, dunque, Hillary Clinton ha vinto le primarie democratiche sconfiggendo di poco Bernie Sanders, mentre tra i repubblicani Ted Cruz ha sconfitto Rubio, Trump e Jeb Bush. Decisivo, come sempre, sarà il “super martedì” a metà marzo, quando voteranno per le primarie gli Stati più importanti.

Con le primarie, che durano fino a maggio, tutti gli Stati americani votano i delegati Stato per Stato alle convenzioni dei due partiti, ma soprattutto i due candidati alle presidenziali. Tra luglio e agosto scatta la seconda fase, quella delle convention di Repubblicani e Democratici. Qui i delegati, con il loro voto, in pratica ratificano il risultato delle primarie. “I partiti negli Usa hanno essenzialmente il compito di esprimere la nomination presidenziale e fare un minimo lavoro di raccordo tra i due rami del Congresso. Per il resto non hanno alcun peso. E anche i delegati eletti al Congresso non hanno vincoli di mandato e possono tranquillamente avere posizioni contrarie a quelle espresse dal proprio partito. Una cosa impensabile nel Parlamento italiano”, racconta Teodori. Il peso e l’importanza nella vita politica dei partiti è totalmente diversa. Forte in Italia, ridotta al lumicino negli Stati Uniti. Questa seconda fase elettorale, dunque, è l’unico momento in cui protagonisti sono i partiti.

CHI C’ERA AL CENTRO STUDI AMERICANI PER PARLARE DI PRIMARIE E MODELLO ELETTORALE USA. LE FOTO DI PIZZI

Nelle convention repubblicana e democratica, poi, i candidati alla presidenza indicano i rispettivi vice presidenti (il famoso ticket) e una piattaforma elettorale, ovvero il programma. Il candidato vice presidente, dunque, non ha nessuna investitura popolare, ma è lì solo perché indicato dal candidato presidente prima delle elezioni. “Solitamente ogni candidato indica un vice molto diverso da lui. Questo per cercare di allargare al massimo il consenso, andando a pescare anche voti lontani”, spiega Teodori. Come a dire che, se Matteo Renzi fosse il candidato del Pd alla presidenza, si sceglierebbe come vice Pierluigi Bersani, proprio per ampliare la sua platea elettorale.

Infine, il secondo martedì di novembre, si vota per eleggere il presidente. Protagonista di questa terza e ultima fase è il popolo: tutti possono votare, a patto di essere registrati nelle liste elettorali. Però, essendo un sistema maggioritario uninominale, non vince chi prende più voti, ma chi conquista più voti elettorali, che vengono determinati in base alla popolazione. E i voti vengono calcolati Stato per Stato. Per esempio, l’Iowa, piccolo Stato, ha 3 voti elettorali: due senatori e un deputato. La California, lo Stato più popoloso, ne ha 55, sempre due senatori e 53 deputati. La regola d’oro delle presidenziali è che chi vince prende tutto. Per esempio, se il candidato dem vince anche di un solo voto in California, prenderà tutti e 55 i voti elettorali dello Stato. In totale i voti elettorali sono 538 (435 deputati e 100 senatori): diventa presidente chi ne ottiene almeno 270. Ed è normale che a fare la differenza siano gli otto Stati più popolosi: Texas, Florida, New York, California, New Jersey, Pennsylvania, Michigan, Illinois. “Pensiamo invece da noi quante polemiche ha creato, per quel poco che c’è stato, il maggioritario con i collegi uninominali che, secondo molti, non garantivano la giusta rappresentatività ai piccoli partiti”, aggiunge Teodori.

Italia e Usa hanno due sistemi elettorali e due modi di concepire e pensare la politica molto diversi, anche perché il sistema americano è lo stesso da 200 anni, mentre quello italiano ha subìto e continua a subire modifiche. Un elemento sembra, però, in comune. “In Usa le elezioni si vincono al centro. Quei candidati che hanno spinto il pedale sull’estremismo non hanno mai avuto fortuna”, sottolinea Teodori.

×

Iscriviti alla newsletter