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Come fare sistema in chiave anti terrorismo

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A quasi tre mesi dagli attentati di Parigi, l’Italia in prima linea nella lotta al terrorismo di matrice islamica può difendersi in maniera più efficace «facendo sistema», coinvolgendo il mondo del lavoro e cogliendo segnali nelle aziende, nelle scuole (anche tra i bambini), nelle carceri. E’ l’auspicio di Lamberto Giannini, direttore del Servizio centrale antiterrorismo della Polizia, intervenuto al seminario organizzato dalla Fondazione Icsa alla scuola di perfezionamento per le forze di polizia sui profili di rischio per l’economia, le imprese e le infrastrutture a rischio.

La situazione non è allegra e lo sapevamo. «L’Italia è assolutamente in prima linea per l’impegno in alcuni teatri operativi con i militari, perché Roma è il centro della cristianità e ospita il Papa e per la vicinanza con aree instabili», ha detto Giannini: «E se non si stabilizza la Libia, la minaccia aumenta». L’esperienza di Parigi è illuminante perché, ha spiegato il capo dell’antiterrorismo, gran parte dell’attenzione si è concentrata sui due attentatori in possesso di passaporto siriano, mentre il problema è che gli altri vivevano in Europa «e quelli come loro non sono sempre ai margini della società, bensì inseriti in un contesto sociale o in attività economiche». Ecco dunque che l’appello di Giannini prende spunto dagli anni Settanta, quando le aziende si organizzarono per individuare i brigatisti o i loro fiancheggiatori anche semplicemente trovando chi distribuiva clandestinamente i volantini: «Vanno colti quegli indicatori che fanno drizzare le antenne».

Significativa fu l’operazione che il 22 luglio 2015 portò all’arresto di due persone a Brescia, un tunisino e un pakistano. Il primo lavorava in un’impresa di pulizie e dalle indagini emerse che intendevano usare un furgone della ditta per entrare indisturbati in luoghi da attaccare o semplicemente per colpire i propri luoghi di lavoro. «Si aderisce alla jihad non solo andando a combattere, ma anche attaccando sul fronte economico», ha spiegato Giannini. La difficoltà sta proprio nell’individuare chi si sta radicalizzando. Può accadere, per esempio, che qualcuno si dimostri particolarmente aggressivo e tenti di sfruttare la pausa pranzo o l’incontro nella mensa per criticare chi attacca l’Islam e per cercare adepti. Può accadere perfino che, influenzati dai fatti di Parigi, bambini musulmani si rivolgano all’amichetto compagno di scuola dicendo: «Mi dispiace farti del male perché sei un miscredente, io ti voglio bene». Sembrano ipotesi da film, ma non è così: il bambino può ripetere meccanicamente quanto ascoltato in tv, e in questo caso la situazione non è drammatica, ma può anche comportarsi in quel modo perché gli è stato insegnato in famiglia, e allora sono guai.

Il prefetto Carlo De Stefano, già capo della polizia di prevenzione e oggi vicepresidente della Fondazione Icsa, ha aggiunto un ulteriore, preoccupante elemento alla situazione generale: le carceri, che non a caso sono attentamente monitorate. E’ accaduto più di una volta, infatti, che un detenuto straniero si ponga come guida, «quasi come un imam» ha detto De Stefano, e crei un piccolo gruppo di detenuti da radicalizzare. Il problema è che prima poi escono dal carcere e quell’indottrinamento si riversa sulla società.

Si sa che lupi solitari e foreign fighter sono i due «profili» su cui si concentrano gli investigatori. «E’ difficile fare indagini sui primi perché riescono ad acquisire una capacità militare anche solo su Internet, senza contatti con l’esterno», ha ricordato Giannini mentre «il massimo pericolo per noi» viene dai foreign fighter, che per l’Italia sfiorano la novantina, numero molto più piccolo rispetto ad altri Paesi europei. «Ma la “portaerei Italia” viene attraversata anche da chi vuole proseguire per la rotta balcanica e da chi vuole raggiungere via mare le zone dove si combatte. Ecco perché – ha concluso Giannini – è necessario un impegno comune nel contrasto, non solo da parte delle forze dell’ordine, ma anche delle aziende e della società tutta».



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