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Rinnovare i contratti è segno di salute, ma serve (anche) investire

Pubblichiamo l’editoriale di “Fabbrica Società”, il giornale della Uilm che sarà on line da lunedì 15 febbraio

La stagione dei contratti arriva, quella della crescita no. La scorsa settimana il settore alimentare ha rinnovato il contratto nazionale, come in precedenza era avvenuto per quelli chimico-farmaceutico e del cemento. Sembrerebbe logico che il prossimo rinnovo riguardasse il Ccnl dei metalmeccanici. Auspicabile, ma non scontato, finora.

Le economie italiana ed europea crescono poco, quella mondiale decelera. I contratti nazionali possono aiutare a far crescere la ricchezza del Paese, perché dagli aumenti salariali in busta paga può determinarsi un serio contributo alla ripresa dei consumi. Quindi, rinnovare i contratti aiuta l’economia a riprendersi, ma ci vuole anche altro, dato il contesto internazionale. I sindacati metalmeccanici insistono con Federmeccanica e Assistal per fare un buon contratto, ma sono consapevoli che l’intero settore industriale abbisogna di una politica coerente e cospicui investimenti.

Senza un’effettiva crescita il Paese non va da nessuna parte. Abbiamo i nostri problemi: “C’è un differenziale – ha avvertito Roberto Napoletano, direttore del Sole 24 Ore  di crescita per l’Italia ancora pesante e che, inevitabilmente, non può non finire con l’incidere sui tassi dei titoli sovrani e portare in dote il suo carico d’incertezza”. Ma non siamo i soli ad avere guai: “Con la nuova caduta delle borse europee – ha ricordato lo stesso Napoletano – e gli spread dell’Italia e della Spagna, oggi è chiaro a tutti che il problema è europeo ed è un problema sia di crescita che bancario”. In Europa si prevede un incremento del Pil all’1,7% nel 2016 e dell’1,9% nel 2017.

L’Italia soffre di più, soprattutto perché l’industria italiana ha perso dal 2008 il 25% della sua struttura.“La crisi mondiale – ha spiegato Marcello De Cecco, economista – è giunta al culmine di una ventennale crisi italiana,iniziata con l’arrivo della moneta unica che ha chiuso l’età delle svalutazioni. Le industrie e il commercio dell’Italia hanno praticato nel ventennio dell’euro uno sciopero fiscale: alle entrate mancanti, lo Stato ha fatto fronte con emissione massiccia di debito pubblico per provvedere alle spese e al welfare”.

Bisogna ora reagire con una durevole politica di investimenti. Ci vogliono risorse concrete da girare alla manifattura italiana, perché  proprio in questo settore l’innovazione di processo e quella di prodotto sono tra le più elevate in Europa. Si può uscire dalla bassa crescita, caratterizzata dalla deflazione, solo se si fanno investimenti mirati e a lungo termine. E non è detto che i soldi debbano arrivare esclusivamente dalle banche.

 “Le compagnie assicurative – ha scritto Federico Fubini, giornalista del Corriere della Sera – hanno un patrimonio di oltre 600 miliardi di euro, fondi pensioni e casse previdenziali per 160, le fondazioni di origine bancaria per quasi 50, le venti famiglie più ricche del Paese per 100 miliardi. Se si sommano alle risorse del risparmio gestito, fa un patrimonio da molto più di mille miliardi; investirne il 3% in fondi di credito per imprese non quotate in Borsa significherebbe riportare i prestiti produttivi quasi ai livelli di prima della Grande recessione”.

Insomma, fare i contratti è segno di salute, ma trovare risorse e investirle nel manifatturiero significa diventare grandi.

Antonello Di Mario, Direttore di “Fabbrica Società”


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