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Corriere della Sera, de Bortoli strizza Renzi sul debito pubblico

Ferruccio de Bortoli

Uscitone da direttore meno di un anno fa, il 30 aprile 2015, dando a Matteo Renzi del “maleducato di talento”, Ferruccio de Bortoli è già tornato al Corriere della Sera come autorevole editorialista, non a caso di domenica, il giorno di solito riservato alle firme più prestigiose, dando praticamente, ma forse anche involontariamente, dello stupido al presidente del Consiglio, nel frattempo rimasto ininterrottamente a Palazzo Chigi. E destinato a restarvi ancora per un bel po’, nonostante le voci e le manovre che cercano di destabilizzarlo, sino a dare un nome e un cognome – Tito Boeri, attuale presidente dell’Inps – a chi potrebbe sostituirlo, col solito interesse o incoraggiamento dei cosiddetti poteri forti dell’Europa e dintorni, se si dovesse ripresentare una crisi di fiducia finanziaria e politica analoga a quella che nel 2011 costò la guida del governo a Silvio Berlusconi.

A fare il nome di Tito Boeri, il tecnico che vorrebbe tagliare le pensioni un po’ a tutti quelli che hanno avuto la fortuna di esservi andati col sistema troppo generosamente retributivo, a spese delle nuove generazioni, è stato in particolare, o per primo, un giovane direttore di giornale che pure passa per un grande estimatore, se non amico, dell’attuale presidente del Consiglio. E’ Claudio Cerasa, succeduto alla guida del Foglio al fondatore e tuttora editorialista e direttore emerito Giuliano Ferrara, imitandone anche il vezzo di firmarsi spesso con un simboletto rosso: la ciliegina, nel suo caso, al posto dell’ormai ventennale e storico elefantino del predecessore.

Un nome, quello di Boeri, che Cerasa ha fatto a fin di bene nei riguardi di Renzi, come per metterlo in guardia dai rischi che corre scontrandosi troppo e troppo spesso con il vecchio, e forse anche nuovo, establishment. Che non condividerebbe il suo ottimismo, la sua baldanza, la sua convinzione di avere già fatto tutti i compiti assegnati all’Italia dai signori ancora inappagati di Bruxelles e dalla signora di Berlino, con la quale pure il presidente del Consiglio giura di avere uno “splendido rapporto personale”. Figuriamoci – viene voglia di dire, specie dopo l’ultimo, recente incontro conviviale avuto con lei nella capitale tedesca – se il rapporto fosse semplicemente buono, o normale.

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La diffidenza dei signori di Bruxelles e della signora di Berlino verso il governo italiano ha cercato di spiegarla in parole povere, come si conviene a un buon giornalista, proprio de Bortoli nell’editoriale di ritorno sulla prima pagina del Corriere della Sera, sottolineando l’anomalia, se non la gravità, dei 2.169, 9 miliardi di euro del debito italiano, cresciuto di ben 34 in un anno solo. Un debito che è pari al 132,8 per cento del prodotto interno lordo, il famoso Pil: ben più del doppio della misura consentita dalle regole o parametri europei. E che si aggiunge, sempre secondo de Bortoli, a un risultato troppo modesto della flessibilità pur richiesta e ottenuta, e nuovamente reclamata dal governo italiano nella gestione del deficit. Una flessibilità accettabile se il disavanzo servisse a stimolare e produrre una crescita o ripresa economica reale e visibile, non di qualche decimale, come sta avvenendo purtroppo in Italia.

Con questi pochi decimali di crescita e con l’ulteriore aumento, anziché riduzione, del debito pubblico Renzi avrebbe quindi ben poco di cui vantarsi, accontentandosi pure lui, per quanto riguarda in particolare il debito, di “guardare stupidamente – ha scritto testualmente l’ex direttore e ritrovato editorialista del giornale italiano più diffuso – i conti degli altri in più rapido peggioramento, ma da livelli inferiori”. Ecco l’avverbio – “stupidamente” – che a chi legge fa considerare superato già il forte livello critico del “maleducato di talento” di un anno fa. Un maleducato che ora rischia, suo malgrado, di “oscurare” quelli che de Bortoli gli riconosce, per fortuna, i “non pochi meriti sulle riforme” acquisiti nei suoi ormai 24 mesi di governo.

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Meno male che in questa seconda domenica di Quaresima il non meno esigente esaminatore di Renzi, che è Eugenio Scalfari, ha avuto altro di più emotivo e personale di cui occuparsi, e su cui intrattenere i suoi lettori, ormai chiamati a raccolta settimanale come fedeli attorno al suo pulpito laico.

Stavolta il buon fondatore della Repubblica di carta ha dovuto vedersela, comprensibilmente sul piano umano e culturale, con quella che ha chiamato “la luce accecante del fulmine” della pur attesa morte dell’amico Umberto Eco. Di cui aveva dolorosamente avvertito la crisi con l’assenza per “indisponibilità” della sua rubrica nell’ultimo numero del loro comune e celebre settimanale l’Espresso.

Meno male pure che, sempre in coincidenza con l’urticante editoriale di ritorno di Ferruccio de Bortoli al Corriere, e anche lui sulla prima pagina dello stesso, storico giornale milanese di via Solferino, con girata all’interno, Mario Monti ha voluto cercare di attenuare lo scontro avuto qualche giorno fa come senatore a vita nell’aula di Palazzo Madama col presidente del Consiglio. Che vi si era recato per riferire sul vertice europeo al quale si accingeva a partecipare. Uno scontro causato dall’accusa di Monti a Renzi di partecipare alla ormai troppo diffusa abitudine di mettere in cattiva luce l’Unione Europea, magari per ricavarne effimeri vantaggi di consenso interno, cioè elettorali.

Monti, peraltro consapevole della replica più articolata, e anche più polemica, poi arrivata col discorso del presidente del Consiglio all’Assemblea Nazionale del suo partito, ha voluto ottimisticamente scrivere che “il consenso tra me e il premier” su Europa e dintorni “è più ampio di quanto egli abbia affermato” rispondendogli a caldo nell’aula del Senato. E gli ha comunque assicurato, con una modestia inusuale per lui, di non ritenere di “possedere certo la verità”. E tanto meno di voler dire, come invece capita spesso proprio a Renzi, di “non accettare lezioni” da nessuno, o quasi. E infatti il capo del governo di lezioni e “lezioncine” ne ha poi rifiutate davanti ai compagni di partito, rinfacciando al governo Monti gli “esodati” e la vicenda indiana dei marò, ma soprattutto rivendicando di fare e rappresentare “la politica, non la tecnica”.

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