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Cosa fanno Usa, Russia e Turchia con i curdi siriani

Il territorio al nord della Siria confinante con la Turchia, e occupato dai curdi siriani, sta diventando il fulcro attorno a cui si snodano le dinamiche geopolitiche per procura che da sempre contraddistinguono la guerra civile siriana: coinvolti russi, americani, turchi, siriani, e ovviamente i curdi, per una fetta di terra, il Rojava, che rappresenta molto per tutti. In un momento in cui il governo siriano gode di un vantaggio sul campo, grazie all’azione congiunta dei russi dal cielo coadiuvati a terra dagli Hezbollah libanesi, dalle milizie sciite irachene e afghane mosse dall’Iran e da un’unità scelta inviata appositamente da Teheran (la Saberin), che stanno fiaccando i ribelli soprattutto ad Aleppo (ma anche in altre zone più a sud).

IL RAPPORTO CON GLI STATI UNITI

Se inizialmente gli americani non avevano pensato ai curdi come partner sul terreno, dopo la vicenda di Kobane tutto è cambiato. Mentre lo Stato islamico assediava il cantone curdo-siriano, la Turchia osservava silenziosa l’evolversi della vicenda (con i mezzi militari schierati appena oltre il confine senza intervenire), e gli Stati Uniti mantenevano una linea timida per non infastidire Ankara, che considera i curdi siriani nemici e la sua milizia, l’Ypg, un gruppo terroristico alleato al Pkk. Poi, però, l’opinione pubblica internazionale ha iniziato a pressare Washington: le televisioni riprendevano l’evolversi della battaglia di Kobane da vicino e diffondevano i video dell’esasperazione degli assediati e della fuga dei profughi. La Casa Bianca non poteva continuare a girarsi dall’altra parte. Inizia così la storia recente della collaborazione tra curdi e americani in Siria, con i raid aerei che martellano i baghdadisti attorno a Kobane, le Ypg che riescono a liberare la città, e, sempre con l’appoggio dei jet americani, scacciano l’Isis lontano liberando (e conquistando) altre aree verso sud. Il valore dimostrato dai curdi di Kobane diventa rappresentativo, perché quella stessa battaglia è un simbolo perché rappresenta la prima grande sconfitta per lo Stato islamico (con perdita di molti uomini e mezzi); ma allo stesso tempo è l’inizio di una legittimazione all’avanza per il popolo curdo, che mentre difende l’Occidente dal Califfato porta avanti l’agenda personale di allargamento del proprio territorio.

Washington capisce che sul campo non ci sono alternative credibili, in termini di affidabilità, di valore, di efficacia, e così sceglie l’appoggio palese: invia armi, tablet per il collegamento con i centri di comando per i bombardamenti (sembra un dettaglio, invece è uno dei segni più importanti della fiducia americana verso l’Ypg), affianca due team di forze speciali che fanno da consulenti per un’avanzata verso sud, ossia su Raqqa, la capitale dello Stato islamico; un’azione strategica dove i curdi fanno parte di un raggruppamento di forze ribelli, di cui sono azionisti di maggioranza. Il rapporto tra curdi siriani e americani è stretto al punto che Washington s’è convinto a costruire un’installazione militare in Siria, senza il consenso di Damasco. La base di Rimelan (non ufficiale) farà da background alle forze speciali americani e alle Ypg, permetterà l’arrivo di rinforzi e sarà da appoggio per gli elicotteri d’attacco che potrebbero accompagnare l’offensiva verso Raqqa.

Tutto questo va inquadrato in un momento in cui il sostegno americano ai curdi siriani può essere di intralcio anche per i rapporti con gli altri gruppi ribelli appoggiati dal programma segreto della Cia. Il New York Times ha raccolto le opinioni dei comandanti militari di diverse fazioni, che si considerano traditi da Washington, soprattutto a fronte di quanto sta accadendo ad Aleppo.

PASSAGGI DIPLOMATICI CURDI

La Casa Bianca ha deciso ultimamente di segnare con un’immagine questa collaborazione con i curdi: all’inizio di febbraio il rappresentante americano per la Coalizione anti-IS, Brett McGurk, è volato nel Rojava, dove ha incontrato uno dei comandanti simbolo delle milizie curde, Polat Can, s’è messo in posa per delle foto (in una l’altro mostrava sul braccio sinistro della sua divisa militare l’insegna “Rojava Army”: qualcosa di indigeribile per i turchi), ha ringraziato i partner, ha omaggiato i caduti celebrandone il valore in battaglia. Ankara s’è indignata, anche come reazione all’essere messa sotto pressione dalla richieste di accogliere i profughi in fuga da Aleppo, e furiosa oltre ogni limite ha convocato l’ambasciatore americano e ponendo sul piatto una sola opzione: o noi o loro. L’incapacità di riconoscere che l’Ypg è un gruppo terroristico è causa di “un mare di sangue”, ha dichiarato Recep Tayyp Erdogan. Il governo turco da tempo storce il naso per l’appoggio statunitense ai curdi siriani, ultimamente si dice che abbia trasmesso al Pentagono le prove del passaggio di armi, che gli americani avevano consegnato all’Ypg per combattere l’IS, in mano del Pkk; sarebbero state consegnate ai curdi turchi dai fratelli siriani, ovviamente accuse smentite da Washington. I turchi temono il rafforzamento dei curdi di casa propria, anche dal punto di vista della legittimità delle istanze, se in una futura soluzione negoziale (vera, più incisiva dei deboli colloqui di Ginevra) il territorio del Rojava dovesse essere assegnato definitivamente e con il riconoscimento internazionale.

Nel frattempo, altra cosa che fa infuriare la Turchia, l’Ypd, ossia la componente politica dei curdi siriani, ha annunciato l’apertura di un ufficio di rappresentanza a Mosca. Alla cerimonia inaugurale hanno partecipato in vesti ufficiali rappresentati del ministero degli Esteri russo. Ali Abdulsalam, il responsabile del nuovo ufficio moscovita, ha diffuso su Twitter una foto programmatica: seduto ad una scrivania, aveva dietro di sé le bandiere russe e del Rojava, e appesa al muro una grande cartina che riportava l’intero territorio rivendicato dai curdi siriani.

A quanto pare, uffici di rappresentanza per attirare sostegno e attenzione, saranno aperti anche a Washington, Berlino e forse in qualche altra città araba. Lo schiaffo diplomatico per l’esclusione del gruppo curdo dall’ultimo appuntamento dei talks di Ginevra: esclusione fortemente voluta dalla Turchia, e sostenuta anche dai sauditi.

IL SOSTEGNO RUSSO

L’appoggio russo ai curdi siriani non si restringe solo al campo diplomatico. Da qualche settimana l’esercito russo sta passando armamenti ai combattenti curdi, ha condotto raid aerei contro gli altri gruppi ribelli nella zona nord-est di Aleppo che hanno permesso all’Ypg di sbloccare qualche situazione nell’area, e pare che i russi stiano costruendo un’installazione a terra a Qamishli. Si tratterebbe di una base simile a quella americana, posta soltanto a 70 chilometri di distanza proprio da Rimelan: la Russia ci avrebbe piazzato un gruppo di forze speciali, e c’è chi dice che siano in arrivo missile antiaerei di protezione (per anticipare eventuali strane voglie turche).

Mosca non vuole restare indietro (rispetto agli americano) sui curdi, e allo stesso tempo li usa per fare un dispetto strategico alla Turchia, con cui i rapporti sono ai minimi dopo la vicenda del Sukhoi abbattuto e per quanto sta succedendo sul campo, con i jet russi che martellano i turcomanni amici di Ankara ad ovest, e i ribelli alleati turchi e sauditi ad Aleppo. Se si volesse cercare una strategia ulteriore, si potrebbe pensare anche che la Russia sta sfruttando il sostegno ai curdi per dividere la Coalizione occidentale, mettendo in difficoltà gli Stati Uniti e isolando la Turchia (che è sempre un paese Nato e su cui Washington e Occidente si trovano costretti a ragionare in ottica di alleanza).

LE MOSSE TURCHE

Per chiudere completamente la striscia di territorio al confine turco-siriano, ai curdi manca una fascia di 90 chilometri attualmente in mano all’Isis che va da Azaz a Jarablus. Alcuni analisti credono che i russi aiuteranno, ufficialmente con operazioni contro il Califfato, le brigate Ypg ad avanzare su quest’area, che permetterebbe di ricollegare le parti del Rojava ad est con l’enclave di Afrin sulla costa ovest, dove i curdi stanno avanzando e hanno preso il controllo della base di Menagh che si trova tra le due strade che collegano Aleppo ad Azaz.

Davanti alla crisi umanitaria dei profughi in fuga da Aleppo a causa della campagna del regime siriano, la Turchia non ha ancora aperto i passaggi di confine, se non in rare occasioni. Ha preferito soccorrere i rifugiati sul territorio siriano, proprio dalle parti di Azaz. In molti hanno considerato questa mossa un tentativo autonomo di creare una buffer zone, una zona cuscinetto al passaggio turco-siriano isolata dai combattimenti, che però non avrebbe soltanto l’azione umanitaria come scopo, ma servirebbe a tagliare la strada ai curdi qualora dovessero avanzare ancora verso ovest.

D’altronde Ankara ha già segnalato che se le Ypg dovessero allargarsi oltre quei 90 chilometri, considererebbe il fatto una questione di sicurezza nazionale e dunque potrebbe intervenire militarmente nell’area. Messaggio tradotto, al netto di cospirazioni: per la Turchia meglio che su quell’area ci siano i baghdadisti piuttosto che i curdi.

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