Mentre nelle nostre televisioni il fenomeno dello Stato islamico sembra essere relegato alla narrazione di battaglie apparentemente disorganizzate e isolate, Isis, Isil, Is, Daesh – diversi nomi per indicare lo stesso soggetto – produce costantemente attività di propaganda (anche) su internet. Produzioni media di regime che, in nome della jihad, fanno proseliti inneggiando alla distruzione del sistema socio-economico occidentale e alla costituzione di un nascente Stato islamico.
Un team di giornalisti italiani dell’’AGC communication’ da oltre tre anni scandaglia il web per scovare immagini e parole della propaganda Isis, che le tv occidentali non mostrano. Ne è nato un documentario di 47 minuti, ‘ISIS: Morte di uno Stato mai nato?’, scritto da Riccardo Mazzon, Graziella Giangiulio e Antonio Albanese e prodotto dalla ‘Ruvido srl’, che è stato proiettato il 18 febbraio al Palazzo dei gruppi parlamentari a Roma. “Siamo costretti a vivere con il rischio costante di chi vuole limitare la nostra libertà. Per affrontare il nemico bisogna conoscerlo e questo documentario è un mezzo importante per capire quali siano gli strumenti propagandistici dell’Isis”, ha detto Simone Baldelli, vice presidente della Camera dei Deputati e promotore dell’evento insieme all’Intergruppo parlamentare ‘Uniti contro il terrorismo’.
La propaganda di Isis arriva nelle case dei giovani tra i 13 e i 25 anni tramite i social network. Un proselitismo sottile che giustifica gli attentati di Parigi del 13 novembre scorso, presentati come risposta ai bombardamenti francesi in Siria e Iraq cominciati a fine settembre, “anche se, a dire il vero, le minacce alla Francia da parte di Isis sono iniziate già nel 2014”, dicono gli autori del documentario.
Ma Isis sta perdendo o vincendo? I video mostrano uno stato colpito ma vivo, con un grande desiderio di emergere. Basato più sulla forza che sul consenso, Isis presenta la guerra come sua unica vera essenza, che ne diviene il fondamento. E quindi combattenti, truppe scelte, nuove generazioni di soldati, anche bambini, arruolati nelle città dove il Califfato esiste o adescati nelle città europee, convertiti e infine resi ‘martiri’ per loro, attentatori suicida per noi.
Ma come si finanzia Isis? Vendita di petrolio sottratto agli Stati, contrabbando di opere d’arte, mercato degli schiavi e per mezzo di fondi sovrani, veicoli di investimento pubblici nati soprattutto nei paesi esportatori di petrolio. Come tutti gli Stati, Isis impone anche delle tasse, rivedendo in chiave moderna la ‘Zakat’, uno dei 5 pilastri della religione musulmana, rendendola obbligatoria. Una sorta di decima imposta in base al reddito che serve a finanziare la guerra, a pagare i soldati e i dipendenti dello Stato islamico, a sostenere i poveri e chi non può pagare i debiti. Lo Stato islamico conia anche moneta e vuole un ritorno al dinaro, proponendo una economia parallela a quella attuale basata sulla finanza. Aspira a ritornare allo scambio reale di beni e non di debiti. Anche se poi, a ben guardare, nelle città del Califfato si usa ancora la carta moneta.