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Ecco i veri motivi del contrasto fra Renzi e Juncker

Con colpevole ritardo, ho letto una magistrale analisi di Sergio Fabbrini sul contrasto tra Jean-Claude Juncker e Matteo Renzi (il Sole 24 Ore, 10 febbraio). Vale la pena riassumerla, sia pure per sommi capi. Secondo il docente della Luiss, è ovviamente possibile che Renzi usi la polemica contro la Commissione per fini di politica interna, sfilando dalle mani di Grillo e Salvini un argomento elettorale formidabile. Tuttavia, alla base di quel conflitto c’è una ragione più di fondo: un radicale mutamento del ruolo dell’Esecutivo di Bruxelles, ovvero la sua politicizzazione.

Fabbrini cita, in proposito, la tesi esposta in un convegno nella capitale belga dal capo di gabinetto di Juncker, un eminente giurista tedesco. La tesi è questa: la Commissione è divenuta un organo politico perché è ora guidata dal capolista del partito che ha ottenuto più seggi nelle elezioni parlamentari del maggio 2014, il Ppe.

In altre parole, la Commissione – da garante dell’interesse europeo (come recitano i Trattati) – si percepisce ora come l’espressione di una maggioranza elettorale. Quindi si sente legittimata ad interpretare politicamente i poteri di cui dispone, tra cui quelli della sorveglianza e dell’approvazione delle leggi di stabilità degli Stati membri. Juncker si sente insomma il leader di un organismo politico a tutto tondo, non più soltanto amministrativo. Cambia così la natura dei suoi rapporti con i capi di governo nazionali e le loro rappresentanze permanenti a Bruxelles. Con una Commissione politicizzata anche queste ultime si devono politicizzare. Il passaggio da Stefano Sannino (ambasciatore di carriera) a Carlo Calenda (politico professionista) quale rappresentante permanente dell’Italia a Bruxelles, è la conseguenza di tale processo di politicizzazione.

Ora, è vero che Juncker ha ricevuto il voto di una maggioranza del Parlamento europeo costituita da popolari, socialisti e liberali. Ma è anche vero che quei partiti non si sono riconosciuti in un programma chiaro e coerente. Ognuno di essi – osserva giustamente Fabbrini – è una confederazione di partiti nazionali, al cui interno le divisioni sono spesso più rilevanti delle ascendenze ideologiche. Diversamente dal Pd di Renzi, i socialdemocratici tedeschi non si sono mai espressi a favore di un’interpretazione flessibile del Patto di stabilità (e crescita), così come i socialisti francesi non hanno alcuna intenzione di contrapporsi ai popolari tedeschi, che dell’austerità sono i campioni. E poi chi si ricorda che Hollande vinse le elezioni presidenziali del 2012 proprio denunciando i vincoli del Fiscal Compact?

Il risultato è “che abbiamo una Commissione politicizzata che usa la sua discrezionalità senza i vincoli di una vera maggioranza parlamentare”. Per altro verso, il bavarese Manfred Weber si è imposto come l’arcigno sovrintendente della Commissione con il consenso dei socialisti francesi.

Ecco come stanno le cose: l’asse tedesco-francese continua a dominare la politica europea. Renzi ha tentato di diventare socio del club attraverso un pressing diplomatico nei confronti di Hollande e della Merkel. Mentre, a mio avviso con ragione, ha preso le distanze da quel ministro del Tesoro europeo (senza portafoglio) che finirebbe per rafforzare l’egemonia di quell’asse. Senza sottovalutare le conseguenze che tale figura potrebbe avere sul raggio di azione di Mario Draghi, forse l’unico tecnocrate sinceramente europeista capace oggi di opporsi ai finti europeisti che fanno i tecnocrati.

Il guaio è che il nostro premier fin qui ha raccolto solo qualche pacca sulle spalle e la promessa di qualche invito a tavola dei “due grandi” (magari solo per il caffè). Forse c’è qualcosa che egli deve correggere, sotto il profilo dello stile e delle scelte polemiche. Altrimenti, in Eurolandia può anche capitare che il rottamatore venga rottamato. Berlusconi lo ha sperimentato sulla propria pelle.

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