Qualche settimana fa, una corrispondente del New York Times, Jennifer Kahn, ha partecipato a un curioso corso a san Leandro – un sobborgo di San Francisco – promosso dal Center for Applied Rationality (Cfar) di Berkeley: tre dozzine di professionisti fra i venti e i venticinque anni, per lo più programmatori della Silicon Valley, sono stati riuniti, con sei istruttori più sei volontari, in un appartamento affittato per l’occasione e allestito con mezzi volutamente di fortuna – materassi a terra, poco spazio, quasi una comune hippie – per vivere quattro giorni di esercizi in Razionalità Applicata. Lo scopo era di imparare a vincere le cattive abitudini che rendono le giornate improduttive e “di conseguenza” infelici gli uomini.
La premessa è che millenni di conduzione pigra dell’esistenza ci hanno inoculato vari automatismi mentali che impediscono di migliorare il nostro approccio alla vita: per esempio, la deriva del procrastinare, il fare investimenti di poco conto e minimo calcolo, il buttare via il proprio tempo, l’evitare di affrontare i problemi. I tre fondatori del Cfar, Julia Galef, Anna Salamon e Michael Smith, tutti con una formazione matematica ed economica, partono dal presupposto che siamo servi della credenza magica che evitare di affrontare le cattive notizie le renda meno vere. Se dobbiamo tasse arretrate allo Stato ci guardiamo dal metterci in contatto con l’Agenzia delle Entrate, ma se qualcuno ci deve dei soldi diventiamo efficaci e solleciti, perché incassare denaro genera dopamina e invece pagare i conti scatena stress. Privata di lungimiranza e capacità di astrazione, la nostra mente regredisce alla scimmia, e fa di tutto per evitare semplicemente lo stress immediato.
Questa tendenza degli uomini è estremamente diffusa anche nella quotidianità spicciola, con le stesse radici e il medesimo modus operandi, e ci induce a “eseguire passivamente” azioni che ci impediscono di fare cose che noi stessi avevamo in programma, e anzi “vogliamo” fare: venuto il momento di agire, la nostra mente le identifica come faticose e quindi indesiderabili, per cui escogita ogni sorta di scappatoia. Per esempio, cincischiare su Facebook invece di lavorare, indugiare ossessivamente alla posta elettronica finché non è troppo tardi per andare a ju-jitsu.
Non che gli uomini non siano consapevoli di questi “bug” nel loro cervello. Però, mentre identifichiamo facilmente il difetto negli altri, siamo incapaci di riconoscerlo in noi stessi. E questo ci rende infelici, perché evitare la palestra, non finire un lavoro, lasciarsi inseguire dagli esattori (sono solo tre esempi, i casi sono una miriade) produce in noi frustrazione e ansia.
Pur condotto con quel pasticcio di entusiasmo, grande capacità di osservazione pratica e istinto manipolatorio tipici della mentalità con cui gli americani trattano le scienze umane, questo corso – che dev’essere ben considerato, visto che costa 3.900 dollari a persona – si propone, attraverso varie tecniche di spoliazione delle “scorie interiori”, di generare in chi lo frequenta una nuova consapevolezza che annulli gli aspetti magici del loro comportamento e spinga gli allievi ad azioni razionali che producano felicità.
Per fare un esempio, ai partecipanti viene chiesto di compiere in pubblico azioni apparentemente insensate, il cui scopo è di smantellare il ghetto degli “errori cognitivi”: uscire sul patio e guardare gli altri dalle finestre per sperimentare il senso di esclusione; immergere un mano in una pentola di avanzi di pollo al curry, per sfidare lo schifo (il tizio che lo ha fatto ha trovato la cosa “un bel gioco”); irrompere all’improvviso a cantare in pubblico. E via così. Insomma, spersonalizzarsi, per essere liberi poi di “ripersonalizzarsi” attraverso esercizi, conferenze e letture per identificare e correggere le cattive abitudini mentali, ottimizzare le attività quotidiane, darsi degli obiettivi e perseguirli sulla base, di volta in volta, di ciò che è opportuno razionalmente. L’idea fondante, dice Smith, è che “agiamo in un certo modo in corrispondenza di quel che siamo, ma è vero anche il contrario: l’esperienza può modificare la nostra identità”. I 36 allievi hanno preso la cosa molto sul serio: sospettiamo però che siano interessati non tanto a curare la loro anima, quanto a perseguire una specie di efficienza automatica, a somigliare di più alle loro macchine. La felicità 2.0 è una vita con meno curve, affrancata da vicoli ciechi e da errori di codice, l’inferno degli sviluppatori software.
Ora, oltre alla curiosità della notizia (non esagerata, corsi di ogni genere vanno di moda e arricchiscono un sacco di gente, indipendentemente dalla loro efficacia), dal racconto di Jennifer Khan abbiamo ricavato tre osservazioni. Prima osservazione: il corso è molto costoso, ha un notevole successo e attecchisce non in un ghetto belga, ma nel mezzo della Silicon Valley.
Seconda osservazione: l’origine del corso. Il Cfar è uno spin-off di un’altra società di ricerca di Berkeley dal nome più inquietante, Miri, Machine Intelligence Research Insititute, nata per per studiare la minaccia incombente che le macchine diventino senzienti e alla fine “sentano” il bisogno di distruggere l’umanità.
Il suo fondatore, Eliezier Yudkowsly, merita una nota biografica. Autodidatta ricercatore sull’intelligenza artificiale, ha lasciato la scuola all’ottavo anno, ha scritto indifferentemente di “polyamory” (non è difficile tradurre), di fine della civiltà a causa dell’intelligenza artificiale, e un racconto, “Harry Potter e i Metodi della Razionalità”, piuttosto popolare fra gli appassionati del genere.
Michael Smith, d’altro canto, è figlio di un immortalista, setta americana pseudoscientifica che persegue con ogni mezzo il raggiungimento dell’immortalità del corpo, culto però a rischio di estinzione, a causa del proliferare di sotto-sette e gruppi paralleli. Il padre di Smith credeva nella telepatia e ha dato il nome a suo figlio dopo aver letto “Stranger in a strange land” di Robert Heinlein: in questo romanzo, tale Valentine Michael Smith è un bambino terrestre che viene allevato dai marziani e poi, una volta adolescente, rimandato indietro. Il giovane, dopo aver studiato i costumi terrestri – tanto per cambiare, sono parecchi i riferimenti al sesso libero – fonderà una nuova religione, anche se ha compreso il concetto di Dio solo come “uno che grocca” (sic: in marziano groccare significa indifferentemente “bere”, “comprendere”, “amare” o “essere uno con”).
Il fatto sorprendente – questa è la terza osservazione – è che il processo di “riprogrammazione dell’autocoscienza” del corso Cfar sembra avere, forse involontariamente, basi filosofiche interessanti, un aspetto in qualche modo teoretico.
Julia Galef dichiara all’intervistatrice: il gruppo tende ad attrarre pensatori analitici, ma l’approccio puramente logico non è l’obiettivo, perché “abbiamo scoperto che ignorare intuizione ed emozione non funziona”. L’obiettivo è condurre l’attività delle parti istintive ed emotive del cervello (identificate come System One, definizione mutuata dallo psicologo israeliano Daniel Kahneman, premio Nobel per l’Economia del 2002 per lo studio sull’applicazione della psicologia cognitiva in ambito economico) in modo che agiscano in armonia con il System Two, la parte più intellettuale e logica, che presiede alla definizione degli obiettivi.
“Il System One”, ha detto Galef durante una lezione, “non è un qualcosa da superare, perché è un attento rilevatore di problemi che la mente cosciente da sola non riesce a registrare, e ha anche un ruolo chiave nella motivazione. La sfida è capire dove i due sistemi vanno in conflitto, generando inazione e frustrazione. Per esempio: voglio andare in palestra di più ma non ci vado, voglio un dottorato di ricerca ma non voglio lavorarci su”. Poi ha mostrato il disegno di una papera con la testa che guarda in una direzione e i piedi puntati in quella opposta.
Il fatto è che la storia dell’uomo tende a ripetersi non solo nel cagionare guai, ma anche nell’ansia di riparare alle conseguenze quando queste ci piombano addosso.
Il Cfar-pensiero, infatti, non irrompe come un fortunale nella Silicon Valley, sa di già sentito e ha successo perché risponde a un bisogno che valica le epoche, le congiunture e le tecnologie: il bisogno di vivere felicemente. C’è stato un periodo della storia in cui questo bisogno ha generato una manciata di scuole filosofiche fondamentali per la cultura occidentale, ed è un periodo sorprendentemente simile quello che stiamo oggi vivendo: l’Ellenismo. E la filosofia più vicina ai pur sgangherati principi dei corsi Cfar è di quel periodo: lo Stoicismo.
L’Ellenismo, che è durato dal quarto secolo avanti Cristo. all’avvento dell’Impero romano, è stato caratterizzato dal primo processo di globalizzazione, grazie alle conquiste di Alessandro il Macedone: la civiltà della Polis era ormai esaurita e cedette il passo alla nascita di grandi regni; a causa di ciò, la vita politica, che aveva caratterizzato l’identità dei cittadini nel mondo greco, non fu più praticabile e gli uomini divennero sudditi; la modificazione epocale dei confini favorì gli scambi commerciali con paesi fino ad allora troppo lontani, la compenetrazione della cultura e delle religioni orientali con quelle occidentali e i movimenti demografici di popoli ed etnie.
Questo nuovo respiro universale, in gran parte bagnato nel sangue, portò con sé non solo occasioni di ricchezza, la nascita dello stato e la fondazione di nuovi paesi e città, ma anche lo smarrimento degli uomini dell’ormai “vecchio mondo”, che si ritrovarono spogliati del loro ruolo sociale abituale e degli dei tradizionali. Il fenomeno che ne seguì, e che all’universalismo camminò parallelo, fu un ripiegamento nel particolarismo, nell’arte come nella filosofia: la cura del dettaglio e la psicologia dei personaggi presero il posto dei tratti universali, stilizzati e simbolici, metafisici dei personaggi e delle loro azioni; l’oggetto dell’osservazione diventarono l’individuo, l’anima e il suo scopo. Così, le nuove scuole piegarono logica, scienza naturale e arti al nuovo oggetto di desiderio, unico rimasto perseguibile, in un mondo diventato troppo in fretta troppo grande: la felicità. Lo smarrimento di allora è molto simile allo smarrimento di oggi, come molto simile è la condizione di violento cambiamento che colse tutti impreparati.
Oggi però non ci sono scuole filosofiche a consolarci. C’è la tecnologia. Pensate a quanto è cambiato il nostro modo di pensare da quando il computer non sta più a casa come una lavatrice, ma viene con noi in tasca, in ogni luogo, cosicché, pur esseri analogici, non abbiamo più uno spazio analogico in cui pensare o, a scelta, ciondolare. La vera rivoluzione culturale l’hanno portata i tablet e gli smartphone: dotati di una seducente velocità di reazione alle nostre richieste, invece che maggiordomi senza giorno di riposo, sono dei dominatori passivi. Maneggiarli ci illude di esser diventati superuomini senza sforzo, di guadagnare tempo, ma quel tempo lo usiamo poi per scrutare ancora il piccolo display, scavarne gli archivi senza fondo. E questo è fonte di infinite frustrazioni. Che angoscia ci coglie quando si smarrisce il telefonino? Che irritazione si scatena quando non c’è campo? Ogni volta che il nostro feudatario digitale si blocca, ci sentiamo perduti: quello che avremmo dovuto fare con esso, non importa quanto insignificante, ci sembra improvvisamente di una necessità immediata.
Non è vero, ovviamente. Noi sappiamo che gli smartphone non possono rispondere a ogni domanda, ma ci comportiamo come se fossero un baluardo, consiglieri pret a porter e anche guardie della nostra privacy, perché ci consentono di metterci in contatto con gli altri essere umani mantenendo un controllo completo, incarnato nella possibilità di interrompere la connessione spingendo un tasto. In realtà, non solo i software di questi oggetti la nostra privacy ce la portano via, ma sono fonte di angoscia assai più che di rassicurazioni. Basta che si scarichi la batteria.
Ecco, mi sono dilungato per sottolineare perché non è strano che degli studi di livello popolare, pratico, non speculativi sulla “felicità”, passino per mani inadeguate allo scopo ma con strumenti formali e materiali potenti, ideati per dettar legge con apparente credibilità. Il corso del Cfar, infatti, utilizza un metodo dozzinale nell’indagine dell’uomo (come specie) ma raffinato nel contenuto, cioè la lettura del bisogno immediato degli uomini (come singoli). E ha punti di riferimento, non si sa quanto consapevoli, analoghi a quelli dello Stoicismo, scuola ellenistica del gruppo delle filosofie eudaimoniste – cioè orientate alla ricerca della felicità – di cui si diceva sopra.
Come il corso di Razionalità Applicata, lo stoicismo si proponeva di indicare la strada ai suoi adepti per la felicità attraverso l’esercizio della ragione. Come indicano oggi gli istruttori del Cfar, la via per la felicità secondo gli Stoici passava attraverso l’armonia conquistata con il passaggio “al setaccio” delle sensazioni e delle rappresentazioni a opera della razionalità. Come i principi del Cfar, che arraffano qua e là guru di scienza e fantascienza come patroni, la filosofia stoica affondava le sue radici nella traballante conoscenza scientifica dei primi filosofi-scienziati, i presocratici. Come l’efficacia del corso Cfar passa attraverso uno smantellamento di parte della personalità dei singoli, a favore della costruzione di un uomo più razionale su principi omologati, lo Stoicismo nacque privo di personalità di riferimento e descrive l’uomo saggio ideale come figura impersonale, perché imperturbabile e indifferente a ogni richiamo tranne che a quello della virtù. Entrambi inoltre indicano l’esperienza come il fattore coagulante di percezione e ragione, che nella mente umana genera la saggezza; e soprattutto, entrambi promuovono l’idea che attraverso l’esercizio, l’eliminazione dei fattori che inducono giudizi erronei, e una certa intransigenza nei confronti di se stessi, la felicità è a portata di mano.
Eppure, a rigor di logica, la memoria e gli infiniti ragionamenti sulle vicende umane, nei duemila e trecento anni che son passati fra loro e noi, avrebbero dovuto produrre qualche passo avanti. A “rigor di logica” però lo direbbe Zenone di Cizio, primo fondatore dello stoicismo. Invece Steve Jobs, quando presentando l’iPad dichiarò “questo oggetto vi aiuterà a risolvere problemi che non avreste avuto senza l’esistenza di questo oggetto”, dopo averci dato dei cretini è stato portato in trionfo come un saggio che ha il senso dell’umorismo, invece che essere fatto oggetto di un consistente lancio di scarpe.
Insomma, non c’è bisogno di sventolare Vico per capire che gli uomini fanno sempre le stesse cose e non si impara mai niente. Men che meno a essere felici. Forse l’unica è dar retta a un fuori quota del gruppo di San Leandro, un cinquantenne che nei quattro giorni del workshop si è aggirato per le stanze dell’appartamento in completo silenzio, vestito sempre in pantaloncini e canottiera: interrogato dalla cronista, di sé ha detto, candidamente, di essere poliamoroso (vedi sopra) e insieme “parzialmente vulcaniano”. Oppure, senza farci troppe domande, faremmo meglio a groccare e basta. Io ho tre gatti che groccano moltissimo, sembrano proprio felici.