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Grasso, Cirinnà e la patologia del voto segreto

È stato letale per Romano Prodi, candidato al Colle. Lo hanno sperimentato sulla propria pelle Antonio Catricalà e Luciano Violante, candidati alla Consulta. Sto parlando di quel voto segreto su cui in queste ore molti puntano per affossare o mutilare il ddl Cirinnà, assestando un duro colpo al Pd e al suo segretario. Sia chiaro, il fenomeno dei “franchi tiratori” è sempre esistito. Solo che ha cambiato natura. Da espressione di piccole vendette personali, “ha acquistato una pseudo nobiltà, quella della sola arma a disposizione per mutare un disegno politico che si avversa” (Luigi La Spina, La Stampa, 10 marzo 2014).

Insomma, da scudo prezioso della libertà di coscienza del parlamentare si è trasformato in surrettizio strumento di lotta politica. La storia repubblicana del voto segreto inizia all’Assemblea costituente il 23 aprile 1947, quando venti deputati avanzarono la richiesta di votare a scrutinio segreto un emendamento al primo comma dell’articolo 23 del progetto di Costituzione. Ne seguì un lungo e dottissimo dibattito, concluso da un lapidario intervento di Palmiro Togliatti: “Noi non abbiamo chiesto il voto segreto e non ce ne importa nulla, perché il nostro voto è pubblico; l’abbiamo dichiarato. Noi non vogliamo il divorzio, ma non vogliamo nemmeno che si includa la dichiarazione di indissolubilità in questo articolo della Costituzione”.

Con 194 voti favorevoli e 191 contrari fu quindi approvata la soppressione del termine “indissolubile”, per cui l’articolo 23 rimase così formulato: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale, fondata sul matrimonio”. Curioso episodio se si pensa al dibattito odierno sulle unioni civili, non è vero? Da allora, comunque, si aprì la via a un uso sempre più frequente dello scrutinio segreto nel corso dei lavori parlamentari.

Torniamo al tempo presente. Per chi scrive, la vera libertà di coscienza, non dovrebbe avere difficoltà a esprimersi pubblicamente. Su una questione come quella della “adozione del figliastro”, ad esempio, un senatore che, prendendo la parola in Aula, motivi il suo dissenso rispetto all’indicazione di voto del suo partito, forse meriterebbe un applauso per la coerenza che dimostra con i propri principi etici e con i propri più intimi convincimenti, magari anche rischiando di non essere rieletto. Nasconderla invece nel segreto dell’urna non è un sintomo di libertà di coscienza, ma di “falsa coscienza” (La Spina, ibidem).

L’articolo 67 della Costituzione e i regolamenti parlamentari (ciò che vietano e ciò che consentono) non sono qui in discussione. È in discussione quel coraggio di manifestare pubblicamente la propria opinione che conferisce nobiltà alla politica: “[…] Io non voglio entrare nel merito dell’ammissibilità o meno di questo mezzo di votazione alla Camera. Però mi ripugna che si faccia richiamo, niente meno che nel testo costituzionale, a questo sistema particolare di votazione del quale si possono dire due cose: da un lato tende ad incoraggiare i deputati meno vigorosi nell’affermazione delle loro idee e dall’altro tende a sottrarre i deputati alla necessaria assunzione di responsabilità di fronte al corpo elettorale, per quanto hanno sostenuto e deciso nell’esercizio del loro mandato” (Aldo Moro, Assemblea costituente, seduta del 14 ottobre 1947).


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