La coalizione anti Isis impegnata in Iraq, Italia compresa, sta facendo molto, ma servirebbe fare di più per vincere un conflitto che, pur essendo simile a quello “contro al Qaeda”, comporterà “un impegno più lungo e duraturo”. È l’appello lanciato oggi a Roma dal segretario di Stato americano John Kerry, intervenuto alla Farnesina durante i lavori del terzo vertice dello formato Small group contro il Califfato del terrore (il primo fu nella capitale britannica, il secondo a Parigi), presieduto dal ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni.
IL MONITO DI KERRY
Il numero uno della diplomazia americana, che domani volerà a Londra, ha ribadito di fronte ai rappresentanti di 23 Paesi la necessità di intensificare gli sforzi contro i drappi neri di Abu Bakr al Baghdadi. C’è bisogno di “un ulteriore sostegno finanziario” e di “collaborare con il governo iracheno per assicurare che le aree liberate restino libere, che l’elettricità torni a funzionare, che ci sia l’acqua e si torni alla normalità”, ha rimarcato. “Ho chiesto ai Paesi della coalizione di dare nuovi contributi” per sconfiggere l’Isis, “in base a ciò che ogni Paese può fare dai raid alla logistica all’intelligence. Mi aspetto che quando ci incontreremo a Monaco per la conferenza sulla sicurezza ogni Paese avrà chiaro che tipo di contributo potrà dare”.
L’IMPEGNO ITALIANO
Parole che sono suonate anche come un monito all’Italia. Sebbene Roma sia tra le capitali “più attive nella lotta allo Stato islamico”, ha rimarcato Kerry nella conferenza stampa finale insieme ad altri elogi, è da tempo che Washington, ma non solo, chiede un maggiore sostegno da parte del nostro Paese. Mettendo da parte l’irrisolto nodo del Muos – il sistema satellitare Usa in Sicilia ancora fermo per beghe giudiziarie -, e le recenti strigliate della Nato, il New York Times del 30 gennaio (riprendendola dal sito italiano Wikilao) – ha scritto su Formiche.net Stefano Vespa – ha pubblicato la lettera che il segretario alla Difesa statunitense, Ashton Carter, ha scritto il 1° dicembre scorso ai ministri della Difesa alleati, tra cui Roberta Pinotti alla quale Carter si è rivolto sottolineando che «apprezziamo profondamente l’impegno dell’Italia in questa lotta, tuttavia c’è ancora molto lavoro da fare» contro l’Isis: per esempio, secondo Carter, l’Italia potrebbe mandare più uomini e mezzi in Iraq per addestramento, intelligence e ricognizione e magari bombardare con i suoi caccia, un’ipotesi accarezzata e poi accantonata. Quasi due mesi dopo quella lettera, il 20 gennaio, Pinotti ha annunciato che nel prossimo decreto missioni l’Italia inserirà un nuovo impegno antiterrorismo per rispondere alle richieste di François Hollande dopo gli attentati di Parigi mentre, secondo il Corriere della Sera del 31 gennaio, il governo avrebbe risposto ancora no agli Usa sui bombardamenti dei Tornado.
COSA FA L’ITALIA (SECONDO LA FARNESINA)
Nonostante ciò, ci tiene ad evidenziare la Farnesina sul suo sito, “l’Italia rimane tra i Paesi più impegnati della Coalizione in ragione del suo contributo sostanziale e multi-dimensionale alle sue attività, in particolare nel settore militare, nella formazione delle forze di polizia irachene, del contrasto al finanziamento del sedicente Stato islamico, del contrasto al fenomeno dei foreign fighter e nelle attività di comunicazione pubblica per contrastare la propaganda di Daesh”.
Per quanto riguarda il fronte più caldo, quello tra Baghdad e Damasco, dal vertice, come previsto, è arrivato pieno sostegno “al governo iracheno guidato dal premier Al Abadi e alle consultazioni intra-siriane iniziate a Ginevra dall’inviato speciale dell’Onu Staffan de Mistura in vista dell’avvio della transizione politica in Siria”.
LE SOLLECITAZIONI SULLA LIBIA
La lotta al sedicente Califfato, però, si interseca ormai non solo con i destini di Siria e Iraq, ma anche con quello della Libia. Il dirimpettaio di Roma, scivolato nel baratro della guerra civile dal 2011, anno della deposizione del rais Muammar Gheddafi, vive momenti decisivi. Il 25 gennaio scorso l’assemblea di Tobruk, riconosciuta a livello internazionale, bocciò l’esecutivo di 32 ministri presentato dal Consiglio presidenziale, concedendo 10 giorni di tempo per formare un governo più agile.
Proprio alla vigilia del vertice di oggi, Gentiloni ha incontrato, con Kerry, il ministro degli Esteri del Qatar, Tamim Bin Hamad al-Thani, e l’inviato Onu per la Libia, Martin Kobler, per discutere degli ultimi sviluppi politici nel Paese nordafricano. E al termine dell’incontro, ha spiegato una nota del Dipartimento di Stato, i ministri hanno deciso di premere sul Consiglio presidenziale libico perché sottoponga al voto del parlamento di Tobruk, il prossimo 8 febbraio, un nuovo governo di unità nazionale che si spera possa essere stavolta quello buono.
UN INTERVENTO CHE SI AVVICINA
Un governo in Libia, ricorda Il Sole 24 Ore, “è considerato una tappa necessaria per intervenire militarmente subito dopo”, soprattutto dal nostro governo, portatore finora di una posizione moderata. Anche se, come raccontato più volte da Formiche.net e sottolineato dal quotidiano confindustriale, “da tempo girano notizie su una compagine formata da Usa, Italia, Francia e Gran Bretagna”. Nessuno, rimarca ancora il quotidiano diretto da Roberto Napoletano, “a partire dal ministro Gentiloni, si nasconde più dal vero pericolo che si sta correndo nel Mediterraneo e cioè che il sedicente Stato islamico (Is o Daesh) vuole trasformare la Libia in un «hub» del terrorismo, come ha affermato anche Brett McGurk, inviato speciale del presidente Barack Obama per la Coalizione internazionale anti-Is, il quale ha espresso preoccupazione per l’afflusso di foreign fighter in Libia, sottolineando che quanto sta accadendo nel Paese nordafricano è l’effetto dei risultati dei raid aerei sui jihadisti in Siria”. Nessuno, inoltre, “nega più che vi sarà un intervento militare. L’unico punto da decidere è quando e come. Dopo il Times di Londra, e il New York Times a più riprese, oggi tocca a Le Figaro illustrare i piani di intervento”.