Skip to main content

L’Europa debole, la scappatoia di Cameron e l’immigrazione

Se l’accordo Brexit ha scongiurato l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, il Vecchio Continente oltre che anziano si presenta piuttosto malaticcio. Il riconoscimento, infatti, dello ‘status exceptionis’ per frenare l’emergenza immigrazione vale come una soluzione palliativa, fatta per offrire un salva condotto; non certo per consolidare una motivazione europeista che in Inghilterra non c’è più, posto che vi sia mai stata nel profondo del suo popolo.

L’ammissione concessa da Matteo Renzi sul fatto che l’esenzione della ‘over closer Union’ per Cameron sia una drastica distanziazione dai Trattati di Roma esemplifica meglio di qualsiasi commento lo stato di crisi della coesione comunitaria. E anche se il presidente del Parlamento Schulz ha ostentato ottimismo sull’esito del referendum, sembra quasi che esso sia ormai divenuto inutile, vista l’autonomia sostanziale che i britannici hanno ottenuto.

Comunque sia, il problema vero riguarda i Paesi non insulari. L’Austria, nonostante gli appelli e le ingiunzioni, non ha modificato per nulla il tetto giornaliero per le richieste di asilo, tanto che la Commissione ha dichiarato incompatibili tali prese di posizione con le norme europee. Risultato: zero.

L’Ungheria, da par suo, chiuderà le frontiere ferroviarie con la Croazia, proseguendo sulla linea del corazzamento murato. La Slovenia poi non sarà da meno nei riguardi della Serbia e della Macedonia.

Insomma, la linea di tutti i Paesi dell’Est è quella della tutela statuale, e dell’egoismo nazionale. Non a caso anche la Germania, che da par suo dice di proseguire su una strategia europea, ha minacciato reazioni, per non dire ritorsioni,  nel caso in cui le responsabilità gestionali dei flussi migratori siano scaricate su Berlino.

A poco varranno, d’altronde, le giuste proteste del governo italiano contro Budapest, perché l’Ungheria non sembra per nulla intenzionata a cambiare la propria mentalità, completamente fuori dalla logica comunitaria.

Tutto questo avviene tra di noi, mentre fuori dai confini di Schengen il mondo appare sempre più messo a ferro e fuoco.

È chiaro pertanto quanto sia necessaria una seria riflessione sul significato della nostra Europa in questo scorcio del XXI secolo. Le esigenze, infatti, novecentesche con cui l’Unione è nata non hanno più alcuna attualità, un po’ perché sono stati traditi gli intenti politici e un po’ perché la situazione internazionale è completamente mutata.

Una logica continentale appare cioè troppo grande per risolvere i problemi locali e troppo piccola per assolvere alle necessità globali. Forse è giunto il momento di aprire una riflessione complessiva e proporre qualche ragionamento di sistema, soprattutto davanti ad una figura come Papa Francesco che propone una visione universale ed extra continentale della politica, senza paura di entrare in polemica con le volontà identitarie non global di Donald Trump.

Negli anni ’50 la Scuola di Chicago aveva presentato alcune iniziative interessanti e anticipatrici in questa direzione che potrebbero aiutare a comprendere dove andiamo. Senza scomodare l’eccessivamente inflazionata idea di globalizzazione, Robert Hutchins aveva chiamato in causa la nozione  di ‘World State’, suggerendo una suggestiva idea di governance mondiale.

In confronto al mondo che abbiamo davanti, nel quale domina un’unificazione random, costituita attorno a poteri di clan, a violenza senza diritto, a terrorismo e fondamentalismo, la risposta non può essere il ritorno al fortino apache degli Stati nazionali. Essi, infatti, sono una pulsione emotiva di aggregazione istintuale che tuttavia risulta totalmente inefficace. E, d’altro canto, non è possibile scommettere su un ordine affidato all’auto organizzazione sociale del potere perché questa produce conflitti e non garantisce sicurezza.

E’ l’idea di Stato, con tutti i suoi principi giuridici, supportati da quella legge universale non scritta che è scolpita nel cuore di tutti e nella ragione umana in sé, a dover essere allargata fino a diventare una legislazione e un ordine mondiale.

La vera battaglia dell’Occidente è quella di superare la dimensione continentale non per tornare agli antichi localismi, ma per giungere, partendo dalle singole comunità, a configurare uno Stato mondiale che porti diritto, umanità e governo in una logica autenticamente planetaria.

La sfida dell’ecologia, il dramma del dimorfismo demografico, che ci vede ultimi in crescita di natalità,  deve spingere necessariamente a pensare che ormai non esiste più auto sufficienza né locale, né nazionale, né continentale.  Ogni persona umana sa che il suo destino dipende da quello di tutti gli altri. E al contempo tutti sappiamo che l’immigrazione non è un processo arginabile con confini, ma solo gestibile con un’idea forte di Stato mondiale.

Per fare ciò abbiamo bisogno degli Stati Uniti, come mostra l’intervento in Libia; abbiamo bisogno della Russia ortodossa; abbiamo bisogno del mondo arabo sciita e sunnita: abbiamo bisogno, in definitiva, di metterci insieme per governarlo veramente questo mondo, evitando di soccombere ad una globalizzazione anarchica e auto distruttiva.

Dal medioevo alla modernità il passaggio fu dalla città – Stato, allo Stato – nazione. Oggi siamo alla svolta dallo Stato – nazione, con le varie federazioni continentali, allo Stato – mondo. Quest’ultimo richiede regole, presenza militare, ma anche promozione di quel nucleo di diritti umani universali che accomunano tanto il broker di Wall Street quanto l’abitante dell’ultima bidonville africana.

Farcela, ossia costruire la base politica di uno Stato – mondo, è la missione che deve assolvere l’Occidente, alla stregua di Papa Francesco. Senza questo obiettivo ambizioso finiremo frazionati in noi stessi, estinguendoci nella tomba dei nostri confini. E rinunceremo oltretutto a comprendere il valore culturale che continua ad avere il Cristianesimo nel nostro tempo.


×

Iscriviti alla newsletter