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La strana guerra tra liberisti e statalisti

Le ipocrisie del capitalismo non rappresentano un vizio morale né un paradosso logico: generano invece pesanti conseguenze economiche, sociali e finanziarie sempre meno controllabili. Un esempio: si racconta con orrore delle indicizzazioni salariali degli anni ’70, frutto di una supposta perversione ideologica dei sindacati, secondo cui il salario reale andava difeso dall’inflazione; al contrario, si considerano con grande favore i titoli di debito con rendimenti indicizzati all’inflazione, in quanto tutelano la giusta attesa del risparmiatore a un rendimento del capitale che non può essere annullato dall’aumento dei prezzi. Difendere il salario reale dall’inflazione è un’aberrazione, mentre tutelare la rendita del capitale è sacrosanto: fosse solo ipocrisia, sarebbe poco male.

I paradossi sul lavoro continuano: non c’è un solo documento ufficiale, dai comunicati dei G20 alle relazioni Ocse, in cui non si proclami la centralità della formazione e del capitale umano. Ma allo stesso tempo si sostengono politiche volte alla riduzione generalizzata dei salari: la deflazione di prezzi e salari viene predicata come uno strumento essenziale per migliorare la competitività di un Paese. Occorrono riforme strutturali per agevolare l’impiego di nuova manodopera precaria a salari più contenuti e la flessibilità in uscita di quella che ha stipendi più alti. Una riduzione dei prezzi rispetto alla concorrenza viene unanimemente considerato il fattore-chiave per il successo sul mercato: è stato così che le merci importate dai Paesi a basso costo del lavoro hanno spiazzato quelle prodotte in Europa. Si è reagito con le delocalizzazioni e riducendo salari e welfare. La nuova variabile indipendente è il profitto, che si mantiene indipendentemente dai nuovi investimenti nella produzione. Per ottimizzare il processo si interviene sull’unico costo ormai davvero variabile, ossia quello del lavoro, riducendo la domanda interna.

L’ipocrisia non ha generato solo un paradosso logico, per cui il lavoro ha un valore sociale enorme ma solo a condizione che costi sempre di meno, ma anche una distorsione del processo di sviluppo e lo stallo dell’intera Europa. Mentre il valore del lavoro viene inutilmente sacrificato, accade il contrario per i beni capitali: una caduta generalizzata dei valori mobiliari e immobiliari rappresenta un danno sistemico cui va posto immediato rimedio. Le banche centrali infatti non esitano a rifornire di liquidità gli intermediari affinché riprendano gli acquisti e i corsi risalgano: occorre evitare che si diffonda il panico. Le banche centrali, dalla Fed alla BoJ, dalla PboC alla BoE e alla Bce, non hanno esitato a inondare di liquidità i mercati e a promettere nuovi interventi. L’ipocrisia in questo caso è rappresentata dalla funzione del sistema bancario, inadatto a trasmettere all’economia reale tutta la liquidità fornitagli. E ad ogni nuovo tracollo in borsa arrivano subito altre promesse di interventi, con un nuovo duplice paradosso. In primo luogo, c’è talmente tanta liquidità nel sistema, accompagnata da altrettanta incertezza sul futuro dell’economia, che gli investitori si accontentano anche di rendimenti negativi per le obbligazioni di una serie sempre più numerosa di Stati. In secondo luogo, la maggior liquidità concessa dalle banche centrali rimane senza impiego, depositata presso queste stesse: per spingerne l’utilizzo la Banca Nazionale Svizzera, la Bce e ora anche la BoJ hanno stabilito rendimenti reali negativi. Anche qui i paradossi non sono logici, ma economici e finanziari: i risparmiatori si devono accontentare di rendimenti negativi su molte emissioni obbligazionarie e solo una bassa inflazione limita che la perdita reale sia più pesante. Non solo non hanno alcun interesse a che l’inflazione risalga, ma anzi sperano che i prezzi continuino a scendere.

Stiamo scoprendo il meccanismo che in Giappone regola le convenienze economiche e finanziarie da oltre un ventennio. La convenienza si fonda sulla prospettiva della deflazione. Dalla profezia della stagnazione secolare, pronunciata tra l’indifferenza generale da Larry Summers nel settembre 2013, siamo arrivati ai proclami di Mario Draghi, che ha confermato che farà di tutto per rialzare l’inflazione; è l’ultimo dei paradossi per un banchiere centrale, visto che per decenni l’aumento dei prezzi è stato considerato la forma di tassazione più subdola e iniqua. Se fino agli anni ’80 la rincorsa tra prezzi e salari, assieme alle politiche pubbliche keynesiane, ha generato l’inflazione che tosava il risparmio, ora le parti si sono invertite. Si tosano i salari reali per far recuperare competitività alle aziende, mentre le politiche fiscali sono fortemente restrittive per contenere i debiti pubblici esplosi dopo la crisi finanziaria, determinando così una caduta della domanda e degli investimenti e la deflazione dei prezzi. A questo punto, se non si vuole tornare a tosare il risparmio, vista la riduzione degli interessi decisa dalle banche centrali, occorre che vi sia la deflazione dei prezzi. Mentre l’inflazione determina l’accelerazione dei consumi per evitare che il denaro perda valore nel tempo, la deflazione causa il rallentamento dell’economia: si aspetta a comprare e a investire perché si prevede che i prezzi cadranno ancora. Si proclama un assetto in cui un’economia reale che si dimostra sempre più efficiente attraverso la riduzione dei prezzi, del costo del lavoro e della domanda pubblica, è fondamentale affinché nel sistema finanziario i valori tendano continuamente a crescere per tener fede al principio della naturale fecondità del denaro nel tempo.

C’è una contraddizione insanabile: mentre l’ordoliberismo viene applicato solo all’economia reale, Stati e banche centrali non lesinano interventi a sostegno del sistema finanziario. Va evitata a ogni costo una sua crisi sistemica, perché sarebbe devastante. Al contrario, all’economia reale per rinvigorirsi serve la distruzione creatrice, fatta di fallimenti, spoliazioni e disoccupazione di massa: la solita, meravigliosa ipocrisia.


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