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Khalifa Haftar, la Libia e l’Italia

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Nel 1983 era il comandante delle truppe di terra libiche quando Gheddafi ordinò l’invasione del Ciad, poi, sconfitto, disertò e andò a vivere in America (Virginia), per tornare in Libia quando scoppiò la rivoluzione contro Gheddafi nel 2011 a cercare un ruolo di primo piano: Khalifa Haftar è, ancora, l’uomo intorno a cui ruota buona parte del processo di pace in Libia. “Un eroe o un ostacolo?“ titolava un’analisi di qualche giorno fa di Agency France Press, inquadrando perfettamente il mood intorno al generale: ché se da Tobruk lo considerano in larga parte (con distinguo) l’uomo che ha cercato di eliminare gli islamisti e le loro minacce per il bene del Paese con l’operazione “Dignità”, dall’altra parte, a Tripoli, è visto come uno dei principali elementi di divisione e di allontanamento verso una possibile rappacificazione.

L’INCONTRO CON SERRAJ

Esempi sparsi: il premier designato sotto egida Onu per guidare il futuro esecutivo di concordia nazionale, Fajez Serraj, sabato ha sentito l’esigenza di incontrarlo nella città in cui si trova adesso, al Marj. La visita s’è portata dietro uno stuolo di polemiche di cui le critiche del vice premier Ahmed Mietig, che sottolinea come l’iniziativa sia una scelta personale di Serraj e non rappresenti le volontà del Consiglio presidenziale (l’organo costituito per insediare il governo di concordia nazionale e che opera da Tripoli), aggiungendo che il futuro premier si sarebbe mosso all’insaputa del suo vice, sembrano la posizione più morbida. Il membro di negoziazione del parlamento tripolitano Abdul Rahman Al Swaihli, è andato anche oltre, ricordando che Haftar non ricopre alcun ruolo in Libia (e nemmeno potrebbe ricoprirlo in termini giuridici, visto la legge che vietava il coinvolgimento nelle istituzioni di figure legate al regime), perciò “Serraj dovrebbe già dimettersi dal suo ruolo solo per aver incontrato quel fuorilegge“. Ancora: Ashrf Shih, consigliere politico del governo di Tripoli, ha dichiarato che l’incontro è stata una violazione dell’intesa di Skhirat, cioè gli accordi di pace siglati dall’Onu. E infine, per ora: Mohammed Ammari, futuro ministro del nuovo governo, garante politico di Tripoli nel Consiglio di presidenza, s’è dimesso per protesta.

IL FUTURO POLITICO DEL GENERALE

In una conversazione telefonica con Formiche.net, l’inviato del Sole 24 Ore Alberto Negri, giornalista tra i più esperti in Italia dell’area MENA, dice che occorre una premessa per inquadrare Haftar e le sue dinamiche: “La situazione libica ha raggiunto i massimi livelli di polarizzazione, e l’insistenza di cercare una soluzione politica unitaria non sta portando, da anni, a risultati concreti; forse il futuro potrebbe essere una realtà federata, Tripolitania, Cirenaica, Fezzan. Su questo Haftar può aver un peso, perché è stato uno dei catalizzatori di quella polarizzazione, ma ci sono dietro dinamiche più grosse legate a realtà culturali ed antropologiche che interessano la Libia su cui lui può far poco: d’altronde, nonostante sia in guerra aperta contro Tripoli da più di un anno, non è riuscito a muovere le sorti del conflitto e non ha ripreso per Tobruk il controllo di importanti fasce di territorio“.

“La strada migliore per Haftar è che il parlamento di Tobruk approvi il governo Serraj ma non l’accordo politico“, dice Mattia Toaldo, analista presso lo European Council on Foreign Relations, contatto a Londra da Formiche.net, perché “così otterrebbe il riconoscimento internazionale, ma senza l’accordo politico Haftar rimarrebbe al suo posto“ che è quello che il generale cerca.

IL NOCCIOLO DELLA QUESTIONE: LA DIFESA

Ormai è chiaro che il cuore di tutta la questione sta nell’assegnazione del comando delle Forze armate, il resto sono quasi dettagli. L’accordo di Skhirat infatti prevede che sia il Consiglio presidenziale ad avere il comando delle future forze armate della Libia unificata (è il più volte citato articolo 8 del testo diplomatico), ma il generale Khalifa Haftar, nominato lo scorso anno capo militare dallo pseudo governo di Tobruk, vorrebbe per sé quel ruolo di commander in chief , attraverso la nomina di ministro della Difesa plenipotenziario. “Da Tripoli non ne vogliono sentir parlare di una cosa del genere, non vorranno mai che Haftar entri in città guidando truppe militari ─ dice Negri ─, anche perché l’astio contro lui, ormai a livelli non negoziabili, risale almeno dal 2013, anno in cui, in luglio, fece circolare un piano di dieci punti per risolvere la crisi nazionale, mettendo in testa alle priorità la sospensione delle attività parlamentari e la proclamazione dello stato di emergenza: un annuncio da generale sudamericano, poi disinnescato“ simile a quello del febbraio del 2014, quando andò in televisione con un altro piano (di cinque punti stavolta) con cui chiedeva alle forze armate di salvare il Paese e proclamava nuovamente il congelamento del parlamento. Una specie di golpe che però fece cilecca: l’allora ambasciatore americano a Tripoli Deborah Safira poche ore dopo l’annuncio del generale aveva scritto in un tweet che «tutte le informazioni disponibili suggeriscono che la dichiarazione del colonnello Haftar non ha sostanza».

CHI SOSTIENE IL GENERALE

Ma Haftar gode comunque di un certo grado di considerazione nell’est cirenaico libico, anche per questo Serraj sabato lo ha incontrato: la sua volontà di inquadrarsi come un Sisi libico, con relativi distinguo, ha incontrato gli interessi di una parte di popolazione esausta dalla molecolarizzazione guerresca delle milizie, dalla corruzione e dalla criminalità. Inoltre Haftar rappresenta il simbolo concreto dell’impronta proxy in Libia: “Occorre ribaltare la prospettiva con cui si guarda a questi conflitti – spiega Negri – perché, come scrisse una volta Toaldo, queste situazioni sono piene di pompieri incendiari“ attori che allungano i propri interessi sulla Libia, come sulla Siria, seguendo agende politiche e geopolitiche che poco hanno a che vedere con le crisi presenti. “È noto che l’Egitto abbia un interesse per la Cirenaica, è una questione storica: si racconta che una volta re Faruq disse a Winston Churchill durante un incontro ‘questo un tempo era Egitto’ a proposito dell’est libico, Churchill rispose con il solito aplomb ‘non mi pare!’, ma è un aneddoto storico che inquadra la situazione“. Le pressioni egiziane sul generale Haftar sono evidenti: venerdì Haftar è volato con un aereo privato in visita al Cairo, accompagnato da un codazzo “diplomatico e militare”. Per quello che si sa, pare che l’Egitto (che gode anche dell’influenza russa), come gli Emirati Arabi, i grandi sponsor esterni del generale, gli stiano consigliando prudenza e moderazione. ”Ufficialmente la posizione dell’Egitto è di essere favorevole all’accordo, ma il suo ruolo non è decifrabile completamente“ aggiunge Toaldo, “è noto comunque che i politici libici influenzati dagli egiziani non siano molto flessibili“.

HAFTAR E L’ITALIA 

Tra gli incontri avuti negli ultimi giorni dal generale, ce n’è stato uno anche con una rappresentanza italiana, composta da diplomatici e membri dell’intelligence, volati in Libia nel tentativo di leggere e indirizzare le scelte di Haftar e dissuaderlo dai suoi interessi. “L’Italia sta giocando su un terreno molto rischioso ─ continua Negri ─ Per noi sarebbe meglio concentrarsi sui reali interessi nazionali, che si trovano concentrati sull’area di Tripoli (per esempio l’hub Eni di Mellitahndr) ed evitare di invischiarci nella complicata situazione della Cirenaica“. “Dobbiamo chiederci qual è il nostro obiettivo strategico minimo, visto che a tutti gli effetti l’intervento militare del 2011 contro il rais Gheddafi ci ha consegnato una sconfitta, in termini di accordi precedentemente siglati tra i nostri due governi e sotto il punto di vista della stabilizzazione del Paese“. Per Negri “bisogna muoversi nel modo più contenuto possibile, con un profilo basso, senza marcare la presenza sul terreno: il rischio, pratico, è di fare da calamita e tirarci contro ogni genere di nemici che ci vedrebbero come invasori“. Una fonte militare contatta da Formiche.net aveva già confermato questa lettura in modo piuttosto chiaro: “Se mettiamo piede là, adesso, ci sparano tutti“. “Sento spesso ripetere che l’Italia deve avere un ruolo centrale sulla Libia in ragione della propria conoscenza dei luoghi: pure vero, ma tutto questo contatto con le realtà libiche ce lo abbiamo veramente?“, si chiede Negri: “Se la nostra percezione delle Libia fosse stata così concreta ed enciclopedica, perché nel 2011  ci siamo trovati impreparati?“. “Inoltre c’è un’altra questione, che si lega al ruolo diplomatico ed internazionale che ricopre il nostro Paese: i nostri inviati in Libia hanno avuto sempre un’ottima percezione dei luoghi e degli ottimi feedback dagli abitanti, ma la Comunità internazionale quanto realmente ci riconosce di questo? Perché se siamo così centrali per mediare la crisi libica l’Onu ha scelto prima uno spagnolo (Bernardino Leòn, ndr) e poi un tedesco (l’attuale delegato Martin Kobler, ndr)? C’è un interesse a tenerci fuori dai nostri ex territori coloniali?“. Il giornalista del Sole 24 Ore aggiunge anche una considerazione su aspetto di politica interna e di carattere socio-culturale: “Si parla del fatto che alcuni nostri soldati possano mettere piede in Libia per addestrare le truppe locali, si fa menzione anche che tra queste potrebbero esserci milizie di Tobruk (domenica il Sunday Times è tornato sulla questione, sostenendo che le proprie fonti avevano rivelato al giornale la presenza di truppe inglesi e americane e francesi, già operative in una base controllata dagli uomini di Tobruk, ndr), per questo probabilmente serve mantenere vivi i contatti con Haftar, visto che la gran parte di queste fazioni combattenti rispondono direttamente a lui: ma questo significherebbe che i nostri uomini sarebbero inquadrabili sul terreno, sarebbero dei potenziali bersagli per attacchi, anche da parte dello Stato islamico, che sarebbe l’obiettivo di quelle truppe libiche che noi addestreremmo. “Uscendo leggermente dal tema Haftar e concentrandosi un attimo sul ruolo dell’Italia – aggiunge Negri – e delle sue dinamiche diplomatiche e militari: un intervento militare in Libia implica scontri armati e pericoli vari tra cui attentati sia lì che sul territorio nazionale, perché comunque un intervento militare è sempre percepito da qualcuno come un atto ostile e di guerra. È l’Italia in grado di sopportarlo, visto che ogni volta che muore un militare inizia subito la geremiade del perché ci siamo andati?”.

“Effettivamente c’è un’altra opzione per il futuro di Haftar ─ aggiunge Toaldo ─ e cioè il mantenimento dello status quo, cioè che tutto rimanga bloccato sul piano politico, confermando gli attuali assetti e ruoli: situazione che sarebbe tanto più probabile proprio se dovesse partire un intervento militare occidentale” sul terreno libico contro lo Stato islamico.

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