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Come crescono le ambizioni nucleari in Medio Oriente

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Riceviamo e pubblichiamo

Se osserviamo i dati più recenti, i Paesi dell’area OPEC o, comunque, mediorientali, sono quelli stanno investendo di più nel nucleare. L’Iran, per esempio, è stato il primo stato a inserire direttamente un reattore atomico alla rete elettrica civile, nel 2011. Malgrado l’accordo, il JCPOA da poco firmato da Teheran con il P5+1, che comunque certamente non farà cessare la ricerca militare-civile iraniana, il Paese sciita gioca sul nucleare, insieme agli altri, per questi motivi: a) l’energia atomica rende disponibili quote di greggio che passano dal mercato interno alle vendite estere, b) il nucleare allunga la vita dei pozzi di petrolio, moltissimi dei quali in fase di maturità, dato che riduce la domanda interna, c) l’uso dell’energia atomica permette poi un “doppio uso” civile-militare, autonomo rispetto alle vecchie alleanze regionali, che sono tutte in definitiva crisi.

Quindi, oltre a gestire in modo razionale e non ingenuo l’accordo con l’Iran, occorrerà metter mano, in brevissimo tempo, ad una serie di accordi bilaterali sul nucleare con gli altri Paesi del Golfo e mediorientali, idea che non vedo molto diffusa nel dibattito strategico attuale.
L’Iran, nel caso di specie, utilizzerà il nucleare militare quando lo avrà o, meglio, quando disporrà di una minaccia “di soglia”, che è quella che conta davvero, come sostituto strategico di una grande forza convenzionale, che manca a Teheran.
Il Paese sciita ha una filosofia strategica legata alla guerriglia asimmetrica e alle proxy war, come quelle di Hezbollah in Libano.
Oppure il nucleare è visto come “game changer”, anche solo come minaccia, ultima e credibile, per uno scontro non-convenzionale in cui sia presente Israele. O una parte del mondo sunnita.

La ratio del nucleare di Teheran è quindi quella di costringere lo Stato Ebraico ad una guerra asimmetrica in aree a lui avverse e fuori dai suoi confini, in un contesto di isolamento internazionale ma, soprattutto, tattico.
Quello che conta, comunque, non è la possibilità tecnica di produrre, avere e mostrare effettivamente una serie di ordigni atomici, ma la capacità di gestire nel più breve tempo possibile il passaggio da un livello accettabile dal Trattato di Non-Proliferazione a quello tipico del nucleare operativo. Detto tra parentesi, la firma da parte dell’Italia del TNP, Trattato di Non Proliferazione, nel maggio 1975, rappresenta l’inizio della fine della nostra politica estera autonoma.

E pensare che volevamo uscire dal Trattato di Non Proliferazione, al G8 di Birmingham del 1998. Il TNP serve a tarpare le ali ai nostri Paesi euroccidentali e mediterranei, mentre l’India e il Pakistan, che con i loro esperimenti nucleari misero in subbuglio proprio il G8 di Birmingham, leggono il TNP, del tutto giustamente, come gli altri arabi e islamici che si affacciano oggi alla soglia nucleare, come una grida manzoniana.
Si pensi solo a cosa sarebbe successo, nel Mediterraneo in fiamme di oggi, se avessimo avuto un livello efficace di dissuasione nucleare, gestito secondo gli usi e i codici convenuti.
L’Iran rimane quindi al cosiddetto nuclear threshold, la “soglia” nucleare, dove si trovano da tempo India e Pakistan, Corea del Nord e, appunto, Israele.

Il JCPOA, in effetti, equalizza il livello di massima minaccia, quello atomico, tra Gerusalemme e Teheran. L’Iran come threshold power, “potenza di soglia”, è esattamente quello che volevano i dirigenti di Teheran. Il che determina una rivoluzione nella equazione strategica mediorientale e, quindi, in quella europea e NATO. Se la repubblica sciita ha una potenza di soglia, e se nel frattempo l’uso civile del nucleare permette ancora la sperimentazione nucleare (cosa che è possibile dato il testo del JCPOA) lo Stato Ebraico si trasforma in un ostaggio strategico. Non so, ma ho qualche dubbio, che i firmatari occidentali dell’accordo con l’Iran ne abbiano avuto piena coscienza. L’ossessione economicista, tipica delle diplomazie occidentali, ha accecato le menti dei dirigenti occidentali. Se Israele si priva della sua minaccia suprema, diventa contendibile sul piano convenzionale, dove i limti strutturali di Gerusalemme sono inevitabili.

Sarebbe stato meglio firmare un accordo con Teheran che permettesse migliori controlli anche nei siti militari dello stato sciita, oltre a diminuire la quantità di materiale fissile per la produzione “civile”, che è oggi troppo elevata e garantisce da sola l’effetto soglia del nucleare iraniano. Basta spostarla di posto. I dati sulla distribuzione delle centrali atomiche, a livello globale, sono comunque di grande rilievo.
Secondo la IAEA, al settembre 2010, data della ultima rilevazione, gli impianti nucleari in toto erano 441, operanti in 29 paesi.
La quota di nucleare nella produzione di energia è maggiore in Europa (27%) mentre, all’epoca del 2010 l’Asia meridionale e il Medio Oriente, appunto, erano a zero. Oggi, però, ben 65 nuovi Stati manifestano interesse per l’energia atomica e, tra questi, almeno un quinto si trova in Medio Oriente. La volontà di nuclearizzazione del Consiglio di Cooperazione del Golfo data dal 2007, mentre anche nazioni arabe periferiche e, soprattutto, non petrolifere (la Giordania, per esempio) si preparano ad una diffusa nuclearizzazione.
I progetti attualmente allo studio riferiscono di 90 reattori nucleari posti in 26 siti in tredici Paesi dell’area, il tutto entro il 2030.
Sei nazioni del quadrante mediorientale, Bahrein, Egitto, ovviamente il già citato Iran, la Giordania, gli Emirati Arabi Uniti e lo Yemen pensano di arrivare già a costruire un impianto nucleare entro il 2017.

Lo Yemen, se tutto andrà secondo i desideri di Teheran e della Russia, dovrebbe ospitare un sito nucleare esterno alla regolamentazione JCPOA, proprio davanti alle coste saudite. Se però abbiamo notato alcune condizioni geopolitiche per la costituzione del nucleare mediorientale, sunnita e sciita, occorre ricordare che il passaggio al nucleare ha anche motivazioni interne.
In primo luogo, vi è la crescita demografica e economica, che necessità di energia elettrica a basso costo e abbondante.
In un contesto, peraltro, di rallentamento dei consumi energetici da idrocarburi dell’Europa e di altri Paesi industriali.
Dal 1980 al 2010, la domanda di elettricità è cresciuta, in tutta l’area mediorientale di cinque volte, ma anche la domanda globale di energia elettrica dovrebbe crescere, tra il 2010 e il 2050, del 61%.
In Medio Oriente la domanda di elettricità dovrebbe salire, nel suddetto periodo, del 114%. È ovvio che, con il nucleare, i paesi dell’area mediorientale vogliano anche presentarsi come possibili esportatori di elettricità, oltre che di idrocarburi, oltre a soddisfare la loro domanda interna.

D’altra parte, l’energia a buon mercato e abbondante è inevitabile, per lo stesso futuro e la sopravvivenza dei Paesi dell’area. In Arabia Saudita la metà del consumo di elettricità va nella gestione dei condizionatori d’aria, per ovvi motivi climatici. Per non parlare degli impianti di desalinizzazione delle acque marine, necessari per la stessa vita delle popolazioni locali. Se i Paesi OPEC del Medio Oriente non si liberano dalla dipendenza dalle loro stesse fonti energetiche da idrocarburi, è ovvio che, in una fase di restringimento dei mercati internazionali del petrolio e di bassi prezzi strutturali, non sarà più possibile mantenere né la pace sociale né gli stessi costi della sopravvivenza della popolazione.
Negli Emirati, per esempio, il 97% della produzione di energia elettrica dipende dal gas naturale, mentre in Egitto la “meravigliosa luce elettrica”, come la chiamavano i Futuristi, viene prodotta al 70% dal gas, che è o un costo ingestibile o, peggio, un legame ingestibile con chi lo procura ai Paesi poveri.

Anche in Iran il gas vale il 67% del totale della produzione di energia, mentre oggi il nucleare di Teheran regolamentato vale solo per meno del 6% del totale dell’energia prodotta.
Naturalmente, il nucleare serve, come abbiamo già detto, per sostenere l’export degli idrocarburi: i redditi dalla vendita di gas naturale e petrolio, per esempio, valgono l’85% delle entrate in Qatar e in Arabia Saudita, mentre l’Iran, e questo è un elemento cardine della sua autonomia strategica, acquisisce le proprie entrate solo per il 60% dalla vendita all’estero degli idrocarburi.
La guerra, sia o meno esplicita in Medio Oriente, sarà vinta dall’ultimo Paese che avrà la possibilità di vendere gas e petrolio all’Occidente.
Chi durerà di più con i propri pozzi attivi, sarà il vero egemone nell’area. La lotta è già cominciata.

Nel cartello dell’OPEC, ormai sempre meno importante per gestire i prezzi, è arrivata l’equivalente delle nostre “guerre di successione”. L’Oman, che non fa parte del cartello di Vienna, è il maggior produttore di petrolio fuori dall’oligopolio dominato dall’OAPEC, il sub-cartello arabo e sunnita nato nel 1968 con un patto, ancora oggi attuale, tra Kuwait, Libia e Arabia Saudita.
Ma la nuclearizzazione è un vero affare anche per gli importatori netti di energia arabi o islamici, come la Turchia o, a suo tempo la Giordania, che vogliono diminuire i costi dell’acquisizione di gas, nel caso di Ankara, dalla Russia e dall’Iran, paesi peraltro sempre meno omogenei al disegno egemonico di Recep Tayyip Erdogan.
Se poi ognuno ha le sue centrali atomiche, si riduce grandemente il pericolo di interruzioni violente, jihadiste od altro, dell’energia.
Se ognuno avrà il suo sistema nucleare, il “jihad della spada” interno al Medio Oriente non avrà presto ragione di esistere.
Si noti, peraltro, una data critica: il tempo della ripresa egiziana, giordana e saudita della produzione nucleare di energia coincide con quello secondo il quale l’accordo JCPOA tra il P5+1 e l’Iran permetterà a Teheran la ripresa di alcune attività di ricerca, anche di carattere militare, nel settore nucleare.

L’equazione strategica è quindi chiara: la Federazione Russa avrà tutto l’interesse a gestire la nuclearizzazione del grande Medio Oriente, e la sua presenza in Siria ne è un segnale, mentre sia la Ue che gli Usa rimarranno legati al mercato, certo importantissimo, dei petroli. E subiranno anche il condizionamento del nucleare interno ai produttori petroliferi. Ma arriverà, in questo caso, una nuova variabile sui prezzi del greggio e del gas naturale: il loro collegamento, economico come strategico, alla quantità e al costo relativo della produzione di energia nucleare all’interno dei Paesi produttori di greggio.



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