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Perché la multa di Casaleggio ai grillini indisciplinati è una carnevalata

GIANROBERTO CASALEGGIO

Più grosso del petardo sparato da Giorgia Meloni con la candidatura di Rita dalla Chiesa al Campidoglio, offertale in un bar con un gelato alla nocciola, secondo il racconto fatto dalla stessa conduttrice televisiva ad Antonello Caporale sul Fatto Quotidiano, è stato quello sparato da Gianroberto Casaleggio istituendo multe da 150 mila euro agli eletti nelle liste grilline refrattari alla disciplina. La taglia salirebbe a 250 mila euro per gli eurodeputati.

Casaleggio, a dire la verità, ha un’attenuante rispetto alla giovane sorella dei Fratelli d’Italia. Mentre la Meloni l’ha fatta politicamente grossa a Carnevale appena finito, almeno a Roma, visto che a Milano il rito ambrosiano lo fa durare qualche giorno di più, Casaleggio si è mosso rigorosamente nei tempi della stagione in cui ogni scherzo vale, come dice un vecchio e generoso proverbio.

Di carnevalesco, comunque, più ancora del progetto, o addirittura contratto, del “guru” del movimento pentastellato di Beppe Grillo, c’è stato il clamore politico e mediatico che è riuscito a provocare.

Fior di costituzionalisti, leader e vice leader di partito, editorialisti, sociologi e quant’altri sono scesi in campo per gridare allo scandalo, anziché limitarsi a riderne. Come ha saputo fare solo il professore ed ex senatore della sinistra Gianfranco Pasquino. Che ha bucato e sgonfiato il palloncino con un semplice spillo, ricordando a Casaleggio che le sue multe ai dissidenti “non sono esigibili in nessun tribunale” della Repubblica. Dove finirebbero le vertenze conseguenti al rifiuto dei dissidenti di pagare. A meno che, naturalmente, il già fantasmagorico mondo della giustizia italiana non ci regali anche le toghe 5 Stelle, oltre alle toghe rosse raccontate in un celebre e spietato libro autobiografico dal pentito e compianto magistrato Francesco Misiani.

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Nessun contratto o regolamento o statuto, per espresso divieto del codice civile, può violare principi e garanzie superiori, fra cui c’è il diritto dei parlamentari, e logicamente di tutti gli altri eletti, di svolgere le loro funzioni senza vincolo di mandato. Una garanzia, questa, che neppure il presunto aspirante dittatore Matteo Renzi, come ormai lo considerano gli avversari interni ed esterni al Pd, si è sognato di cambiare nella sua riforma costituzionale, prossima ormai al traguardo finale in Parlamento, prima di essere sottoposta in autunno all’ultima parola degli elettori col referendum cosiddetto confermativo.

Il fatto è che i dirigenti grillini o non conoscono la Costituzione o non se ne sentono vincolati, anche se sono sempre pronti a reclamarne il rispetto quando pensano che possa essere funzionale persino agli interessi o alle convenienze del loro movimento. Che peraltro essi si rifiutano di considerare un partito sia in odio ai vecchi e nuovi partiti concorrenti, sia per potersi sottrarre ai vincoli che potrebbero derivare dall’attuazione, finalmente, dell’articolo 49 della Costituzione, non a caso reclamata in questi giorni dal vice segretario del Pd Lorenzo Guerini.

Quell’articolo dice, testualmente, che “tutti i cittadini possono associarsi in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. E il metodo democratico non può certo intendersi riferito solo alla legge elettorale, come vorrebbero i costituzionalisti pentastellati, ma anche agli obbligatori statuti dei partiti, che devono disciplinarne il funzionamento.

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Anche questa pretesa grillina di distinguere tra partiti e movimenti, negando dignità ai primi per riconoscerla solo agli altri, fa francamente ridere. E non è neppure originale, perché i grillini sono arrivati ben ultimi su questa strada ipocrita. Preceduti nella cosiddetta prima Repubblica, fra gli altri, dalla “Democrazia Cristiana”, che era un partito senza chiamarsi formalmente così, dal “Fronte dell’Uomo Qualunque” fondato nel 1946 dal commediografo Guglielmo Giannini, progenitore del comico Grillo, e dal “Movimento Sociale”, nel quale si ritrovarono i nostalgici del fascismo.

L’esordio della cosiddetta seconda Repubblica fu segnato nel 1994 dalla vittoria inaspettata di Silvio Berlusconi alla testa di un nuovo movimento volutamente chiamato non partito ma “Forza Italia”, e basta. E gli andarono dietro rapidamente persino i comunisti, che tolsero la p dalla targa inventatasi con il Pds-ex Pci e si chiamarono “Democratici di sinistra”. Anche i democristiani di sinistra preferirono, in compagnia di ex liberali e verdi, assumere il simbolo e il nome della “Margherita”, salvo ritrovarsi con la sinistra di provenienza comunista solo nel 2007 nell’attuale “Partito Democratico”. Ma prima di quel ritorno formale al nome vero, nessuno aveva di fatto rinunciato davvero a considerarsi e ad essere un partito. Come lo è quello dei grillini, anche se, in oscillazione gravitazionale pure loro, lo negano e vorrebbero far credere il contrario.


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