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Perché non convincono le lamentele di Letta e Monti contro Renzi

Il ritorno sulla scena di Monti e di Letta per rimproverare a Renzi la sua fermezza nei confronti dell’Europa è la banale riproposizione di promozioni personali nella speranza che il premier si trovi presto in difficoltà tali da essere costretto a passare la mano. Insomma, nel mondo politico, lo sciacallaggio è uno sport diffuso, ma da due ex-primi ministri si pretenderebbe un po’ di fair play.

Mostrando la vecchia astuzia, Prodi non si è allineato al coro dei critici e, quando è stato interpellato, s’è inoltrato nei suoi classici complessi ragionamenti di cui è facile perdere il senso.

L’Europa dei nostri giorni non è un club di gentiluomini (se mai lo è stato) votati alla costruzione della sua unità politica. È un accolta di politici e di politicanti il cui obbiettivo è il perseguimento dell’interesse nazionale della propria nazione (vedere il caso dei limiti di inquinamento a favore della Vw di cui all’articolo di Tino Oldani in questo stesso numero di ItaliaOggi), a scapito degli altri componenti dell’Unione. In questa attività, è necessario stringere e rompere alleanze, definire compromessi, suscitare consensi su specifiche posizioni.

Più o meno è ciò che Matteo Renzi ha compreso: finito l’afflato unitario con la bocciatura della Costituzione da parte della Francia e dell’Olanda (2005), le Nazioni, sciaguratamente diventate 28 nell’Unione ormai ingovernabile, intendono utilizzare lo strumento comunitario esclusivamente ai propri fini. Ci sono tante, troppe dimostrazioni di questa realtà. L’ultima e la più grave, giacché mette in pericolo la sussistenza stessa dell’Unione, è la possibile sospensione per due anni di Schengen, il trattato per la libera circolazione infraeuropea delle persone. Si tratta di una decisione che lascia due vittime sul terreno: l’Italia e la Grecia.

Scontate e accettate tutte le critiche possibili alle autorità italiane (e greche) per il modo in cui hanno gestito la biblica migrazione dal fronte Sud del Mediterraneo, rimangono sul tappeto i vecchi irrisolti nodi. Dal punto di vista sostanziale, l’Europa non ha mai pensato di definire una protezione (europea) per le proprie coste, in particolare per quelle più esposte all’arrivo di migranti e rifugiati. La Convenzione di Dublino in vigore, detta Dublino ter, è stata introdotta nel giugno del 2013. In Italia era premier Enrico Letta (e di ciò bisognerebbe chiedergli conto).

In essa sono ripresi i principi fondamentali dei precedenti accordi e, in particolare: il primo Stato membro in cui vengono memorizzate le impronte digitali o viene registrata una richiesta di asilo è responsabile della richiesta d’asilo di un rifugiato; viene istituita una banca dati europea delle impronte digitali degli immigrati clandestini. In questo modo si può stabilire c on rapidità qual è lo Stato membro competente: a esso vanno trasferiti tutti coloro che –non riconosciuti come rifugiati- si trovano nel territorio dell’Unione.

Nel momento in cui si definiva il Dublino ter nessuno aveva idea di che dimensioni stesse assumendo l’immigrazione a causa delle guerre civili scatenate in Siria, in Iraq e in Libia. Solo il governo italiano avrebbe potuto immaginarlo, visti i flussi che già nel 2013 si stavano constatando. Il mite Letta, colui che suggerisce diplomazia e garbo nei confronti di Bruxelles, non ha avuto il coraggio, la forza e la determinazione di opporsi alla nuova direttiva facendo valere l’interesse italiano a una forza militare comunitaria per la gestione dei soccorsi nel mare Mediterraneo e per una task force comune che si occupasse dell’identificazione dei nuovi venuti e del loro futuro.

No. Italia e Grecia sono state lasciate sole di fronte a un fenomeno ingestibile con le loro forze, anche finanziarie, limitate e oggi, di fronte all’invasione delle Nazioni del Nord Europa non si trova altra soluzione possibile che chiudere le frontiere, trasformando questi due paesi in enormi campi di concentramento a cielo aperto, terminali senza sbocchi del disastro umanitario provocato soprattutto da Stati Uniti e Francia. Anche perché l’ideuzza di ripartire una quota (minima) di rifugiati tra le varie Nazioni è naufragata per l’indisponibilità di molte di esse e dei medesimi rifugiati che pretendono di andare dove preferiscono cioè in Germania, in Svezia e, comunque, al Nord.

Certo, c’è sempre stata in Italia una forte presenza della viltà, come sentimento singolare e collettivo, e questa è una buona occasione perché essa sia protagonista dei talk show e degli scritti dei sempre benpensanti, votati all’accettazione passiva di tutto ciò che gli altri intendono propinarci. Col codicillo di una critica serrata al primo ministro che, per la prima volta nella storia dopo Kohl, Mitterand e Craxi, intende discutere punto per punto, parola per parola ciò che si scrive a Bruxelles per non accettare ciò che ci danneggia (lo può fare per la regola dell’unanimità comunitaria).

Accantoniamo per un attimo il completo cahier des doléances e soffermiamoci sulla riunione dello Small group, i 23 Paesi della coalizione antiterrorismo (senza la Russia) tenutasi martedì alla Farnesina. Anche in questa occasione è stato richiesto all’Italia un impegno (militare) che va al di là delle sue attuali possibilità.La questione viene da lontano, naturalmente, soprattutto dall’insensata politica americana in Iraq, in Siria, in Libia, oltre che in Egitto e in Tunisia. Oggi, in periodo preelettorale, Barak Obama, che al disastro ha dato un contributo determinante, non intende rischiare i suoi uomini sul terreno e cerca quindi di ottenere dai suoi alleati le truppe che gli servono.

Per quanto ci riguarda, la missione del segretario di Stato Kerry sembra fortunatamente fallita. Anche qui, è emersa la possibilità che l’Italia si impegni solo per la tutela dell’interesse nazionale, nel senso che se impegno militare ci sarà, sarà limitato alle sfere di interesse nazionale: i pozzi di petrolio e le occorrenze per la lotta ai mercanti di uomini. Insomma, il paradigma della tutela di questo nostro precipuo interesse diventa l’irrinunciabile riferimento della politica italiana in sede europea e ovunque sia in discussione. Una scelta difficile che, però, ci impedirà di essere i soliti donatori di sangue senza contropartita.


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