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Perché Renzi festeggia (troppo?) dopo l’incontro con Juncker

Pappa e ciccia, davanti ai cavatelli e al dolcetto che l’ospite ha apprezzato da par suo, Jean-Claude Juncker ha dato il benestare alla prossima manovra renziana: flessibilità, quindi più deficit per almeno mezzo punto, niente procedura d’infrazione sul debito e tempo fino al 2019 per cominciare il rientro a un passo più lento del previsto (0,25 del pil invece che 0,50% l’anno). Vittoria italiana su tutti i fronti? Questa è la interpretazione filtrata da Palazzo Chigi attraverso i renzologi meglio introdotti.

Se Roma brinda con vino rosso, Bruxelles getta acqua sul fuoco. E’ vero, nessuno vuole aprire uno scontro politico con l’Italia sull’economia, mentre ci sono oggi motivi di tensione ben più gravi (rifugiati, Libia, Siria, sicurezza), ma il risultato concreto tra baci, abbracci e promesse, è che la patata bollente passa nelle mani di Moscovici e Padoan ai quali spettano i dettagli. E, come sappiamo, il diavolo si nasconde proprio lì.

Vedremo nelle prossime settimane come stanno le cose, anche perché il documento sull’Italia pubblicato dagli esperti della Ue insiste a mettere nel mirino non solo il debito (problema numero uno che mette in pericolo, così si dice, l’intera zona euro), ma la scarsa produttività e la mancata crescita. Il rapporto dice chiaramente a pagina 7 che i conti pubblici sono rimasti sotto controllo grazie al risparmio sugli interessi (merito di Draghi), mentre si è deteriorato l’avanzo primario (circa 0,7 punti in tre anni e continua anche nel 2016), chiede più riforme e un intervento specifico sul debito (taglio alla spesa corrente e privatizzazioni, per esempio). E’ la premessa per discutere qualsiasi ulteriore flessibilità e questa, a quanto sembra, sarà la linea del negoziato sui “dettagli”.

Renzi è troppo accorto per illudersi che Juncker gli abbia firmato un assegno in bianco. Padoan fa trapelare che la sua strategia consiste nel conquistare “spazio fiscale” già quest’anno, rispettando i parametri del deficit e del debito, per varare un taglio alle imposte sui redditi non compensato da tagli alla spesa che avrebbero un impatto negativo sulla crescita. Dunque, deficit spending per il terzo anno consecutivo, tutto sta a vedere quanto sarà grande lo spazio a disposizione: il governo italiano vuole un punto di pil non il mezzo punto promesso da Juncker. Se le cose stanno così, è chiaro che la battaglia è tutta da combattere anche perché, come ammette Padoan, la sua mossa è possibile solo con il consenso della Ue.

Dal G20 di Shangai emerge intanto un conflitto aperto tra i grandi dell’Occidente: la Germania rifiuta di abbandonare l’austerità, anzi sostiene che la politica fiscale deve essere cauta oggi più che mai perché “il tempo della crescita fondata sul debito è finito”, come ha detto Schaeuble. E volge al termine anche il tempo della moneta troppo facile, dunque niente tassi d’interesse negativi e niente prolungamento del quantitative easing oltre il marzo del prossimo anno. Due messaggi chiarissimi: il primo a Padoan che lo stava ascoltando e il secondo a Mario Draghi.

Sul tavolo del negoziato europeo la posizione tedesca peserà, eccome. Renzi, dunque, ha bisogno di alleati, non solo di amici. E qui le cose si complicano. Tutti guardano alla Francia, ma il ministro dell’economia Sapin ha messo le mani avanti, rinviando la palla alla Germania: sta a lei aprire i cordoni della borsa, ridurre le imposte e allargare la domanda interna, proprio quello che Schaeuble ha rifiutato. Dunque, siamo in pieno Comma 22. Sulla Spagna meglio non contare, dovrà rifare le elezioni e poi, da almeno un secolo a questa parte è ancella politica della Germania che, in cambio, le concede graziosamente il suo aiuto. L’Austria sta tornando ai tempi di Cecco Beppe (lo dice Claudio Magris, quindi c’è da fidarsi). Il nord Europa ormai coltiva solo il proprio orticello. E via di questo passo.

La partita per il 2017, insomma, si presenta davvero molto complessa all’esterno, con chiare ricadute interne, proprio mentre Renzi cerca di consolidare i successi tattici ottenuti (come sulle unioni civili) per trasformarli in vittoria strategica con il referendum autunnale preludio (se il governo vincerà) di elezioni politiche nella primavera successiva. Come diceva il sommo fiorentino, “qui si parrà la tua nobilitate”.

Stefano Cingolani


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