Qualcosa si muove. Matteo Renzi mobilita le sinistre europee mettendo al centro la lotta all’austerità (speriamo non chieda maggiore flessibilità che è uguale solo a minore austerità, non a più espansione). Mario Draghi nel suo discorso ha menzionato (mentre tutti si sono messi a fare l’analisi semantica, errata, di una presunta cospirazione a tenere bassa l’inflazione) come ci sia bisogno di “politiche strutturali efficaci … comprendendo in esse la fornitura di infrastrutture pubbliche adeguate“.
Per la prima volta Draghi parla di politiche fiscali espansive, e lo fa nell’unico modo che il difficile governo interno della BCE gli consenta: in punta di piedi. Ma l’analisi dei suoi discorsi pubblici mostra chiaramente come abbia modificato il suo pensiero nel tempo, lentamente prendendo atto che la domanda privata non riesce in questa crisi a sostenere l’economia malgrado l’aiuto della politica monetaria. Lo fa forse malvolentieri, dato il suo penchant per una costruzione liberista: ma i rischi politici di una fine dell’Europa lo costringono a prender atto che senza domanda pubblica non se ne esce. Peccato non avere forzato la mano prima, molto prima, ma forse non spettava nemmeno a lui farlo.
Eugenio Scalfari il 7 febbraio su Repubblica ha menzionato come Draghi ritenga “indispensabile e quindi (voglia) la creazione d’un ministro del Tesoro non di tutta l’UE ma soltanto dell’eurozona“, e incoraggiato Renzi a proseguire su questa strada, adulandolo con la prospettiva di divenire un brillante futuro di leader europeo se si decidesse a muoversi in questa direzione.
Per fortuna lo stesso Draghi nell’ultimo discorso al Parlamento europeo non ascolta Scalfari e non menziona mai (al contrario di altre occasioni) la centralizzazione della politica fiscale e il susseguente ulteriore abbandono di sovranità economica dei singoli Stati nelle mani di un ministro unico.
Sarebbe un errore mortale farlo ed è essenziale che le sinistre europee lo ribadiscano forte e chiaro nei loro futuri incontri in comune. Meglio di Scalfari, molto meglio, sempre il 7 febbraio, è un Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera fortemente preoccupato del futuro europeo e che comprende come sia la mancanza di solidarietà che porterà alla fine del progetto europeo. Altro che ministro comune, ci vuole un progetto comune. Giavazzi ricorda giustamente come gli Stati Uniti d’America per arrivare a una politica fiscale centralizzata ci hanno messo decenni.
Erroneamente però, ripercorrendo la storia americana, sembra far coincidere l’avvio di tale politica federale comune, accentrata a Washington, con la guerra civile: “negli Usa fu la guerra civile combattuta fra il 1861 ed il 1865 a infrangere le resistenze al federalismo fiscale“. Non è così. Tutti i dati mostrano come per altri 70 anni il progetto fiscale americano in comune avrebbe dovuto attendere un’occasione più appropriata. La spesa, la tassazione, il debito di quegli ultimi anni del XIX secolo e del primo trentennio del Novecento furono tutti in mano ai singoli Stati americani, gelosi delle loro prerogative su quanto, come e quando spendere le risorse degli abitanti dello stato, fosse questo il razzista Tennessee o il progressista Massachusetts.
Cosa fece diventare gli Stati d’America veramente Uniti? I dati parlano chiaro: spesa, tasse e debito furono concentrati nelle mani di un solo politico, il presidente degli Stati Uniti, nel 1935, quando Franklin Delano Roosevelt, ispirato non da una guerra ma da una crisi economica, si batté per allocare le risorse degli Stati più abbienti a quelli più in difficoltà. La solidarietà mostrata, in nome di un obiettivo comune, fece sì che tutti i cittadini del Paese compresero quanto ci fosse bisogno di uno schema nazionale di assicurazione verso i più bisognosi come collante sociale per andare avanti, per non implodere. Solidarietà prima, unione poi, caro Scalfari. Nessuno si fiderà mai di un ministro eletto nei salotti europei, nessuno crederà mai che questo non farà che rappresentare gli interessi dominanti tedeschi, se prima non si è deciso di vivere nella solidarietà e nella comunione di intenti. Ci vuole una prova prima, una prova decisiva di solidarietà.
Giustamente Giavazzi, come Draghi, non menziona il ministro in comune. Anzi, fa esplicito riferimento a un primo passo di solidarietà, quello rispetto alla spesa per rifugiati come prima occasione verso un bilancio in comune.
Concordo, finalmente, con lui (sorrido pensando che forse è la disperazione per le sue teorie fallimentari che lo ha portato a concordare con me dopo tanti anni, ma meglio non fidarsi ancora). Conquistiamo prima passo dopo passo il senso del progetto comune. Il ministro in comune, con buona pace del dottor Scalfari, lo rinviamo a tra 20 anni, sperando ci sia ancora quell’Europa per cui si sono battute generazioni di donne e uomini, federalisti o meno, rinunciando a risolvere le loro diversità culturali con disumane guerre.