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Tutte le differenze fra Matteo Renzi e Mario Monti

Età, generazione, professione, cultura, stile, modi, pronuncia persino, Mario Monti e Matteo Renzi non potrebbero essere più diversi. E possono trovare una quantità infinita di terreni sui quali sfidarsi. Eppure, l’Europa, o meglio l’Unione europea, è il campo di battaglia più appropriato, perché rivela meglio di ogni altra cosa la distanza tra due modi di essere italiani.

Quella di Monti è l’italianità nordica e borghese di una classe intellettuale, laica, che ha sempre sofferto di un complesso d’inferiorità rispetto alla borghesia nordeuropea, quella dell’etica protestante e dello spirito del capitalismo. Questo tipo di élite ha reso il Paese una potenza industriale, nonostante tutto. Consapevole dei mali o meglio delle tare che la storia ha lasciato, ritiene che l’Italia si può salvare solo se viene tirata per i capelli nella modernità da qualcuno o qualcosa che viene dall’esterno. E’ quello che i La Malfa o i Carli chiamavano il vincolo esterno. E’ l’Italia attaccata disperatamente alle Alpi per non affondare nel Mediterraneo della quale parlava Gianni Agnelli. Non si tratta, dunque, di essere sdraiati sotto il tallone tedesco o di baciare le mani ad Angela Merkel, queste sono battute triviali, polemichette da poveri di spirito. Si tratta di restare ligi alle regole fino in fondo. Regole accettate perché condivise. L’austerità non è una politica fiscale, è una virtù. Lo dimostra la foto rubata a Monti mentre attendeva la moglie sulle scale dell’ospedale.

L’italianità di Matteo Renzi è appenninica, è quella piccolo borghese dei comuni e dei campanili, rapida, astuta, anche un po’ arruffona, piena anch’essa di virtù sia chiaro, ma non della grande Virtù. Questa Italia si sostituì nella prima metà del secolo scorso all’egemonia piemontese, ma anche a quell’amalgama di notabilato meridionale e aspirazioni generazionali che aveva segnato l’Italia liberale. Nel dopoguerra è stata assorbita perfettamente dalla spugna democristiana, ma anche dal magnete comunista. Ed è diventata l’Italia del piccolo è bello, delle cooperative rosse, del modello adriatico, dei cespugli come li ha descritti il Censis, e pure della “via italiana al comunismo”, dei due forni, della mano destra tesa agli americani e la sinistra agli arabi. E’ una italianità che, a destra come a sinistra, rivendica il proprio modo di collocarsi sulla scena della politica e della economia. Senza sudditanza, anzi spesso con una certa arroganza. Il vincolo esterno è un peso soffocante, le regole germaniche un diktat insopportabile. Sulle Alpi regna il pino dal fusto dritto e puntuto. Sugli Appennini il legno storto del bosco ceduo.

Entrambe le visioni, entrambi i convincimenti e i comportamenti conseguenti, scontano una crisi parallela.

La borghesia del Nord che alimentava l’Italia montiana non c’è più, si è squagliata, ha venduto allo straniero, ha tesaurizzato, i capitalisti sono diventati redditieri, dunque non sono in grado di sostenere l’impatto con un nord Europa più ricco non solo di quattrini, ma di energie, che ha saputo conservare (sia pure in modo talvolta truffaldino) la propria forza. E’ evidente, quindi, che detta la linea ed è altrettanto evidente che da questo versante delle Alpi non resta che obbedire. Non c’è nessun Agnelli che (nel bene e nel male) era in grado di dire “non siamo la Repubblica delle banane” e lo stavano ad ascoltare a Londra, a Parigi, a Francoforte (per non parlare di Washington).

La piccola borghesia appenninica ha fatto molto per non far affondare l’Italia nella più grande crisi attraversata dagli anni ’30. Bisogna riconoscerlo, lei lo sa e adesso vuole incassare. In modo un po’ arrembante e un po’ arruffone. Ma ritiene (s’illude) che non abbia nulla da imparare. Lo specchio di questo è la lingua. Non solo lo spiccato accento, ma il fatto di parlare le lingue straniere senza davvero conoscerle.

Si potrebbe dire che l’Italia ha funzionato bene quando le Alpi hanno incontrato gli Appennini. Ciò vale per la storia antica e per quella recente. Ma il fatto è che oggi non si incontrano. Monti ha ragione a criticare Renzi per aver mollato la spending review: è stata una scelta che ha immediatamente suscitato il sopito che tornasse l’antico vizio dello spendi e spandi. Ma il capo del governo a sua volta ha ragione a lamentarsi dell’atteggiamento punitivo della Germania verso tutto quello che possa ledere gli interessi tedeschi. Berlino segue la vecchia regola dei vizi privati coperti dalle pubbliche virtù (per dimostrarlo bastino tre nomi: Volkswagen, Siemens, Deutsche Bank).

Recriminare non serve a nulla e non serve nemmeno piegarsi. Bisogna trovare un modo di stare al mondo (non solo in Europa) e questo è il punto debole di Renzi. Il suo agitarsi ha il sapore del contingente, è condizionato dallo sguardo breve, dal vincere tante battaglie più o meno piccole senza avere una strategia per vincere la guerra. Si può dire che nessuno ha di meglio da offrire tanto meno sul teatrino italiano. Ma ciò non toglie che senza una visione di più lungo periodo, le scaramucce quotidiane diventano fatiche tanto inutili quanto estenuanti.


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