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Cosa fanno Russia, Iran e Turchia in Siria

Non ha usato mezzi termini la cancelliera tedesca Angela Merkel, che oggi, parlando ad Ankara durante una conferenza stampa con il primo ministro turco Ahmet Davutoglu, si è detta “sconvolta e inorridita” per il dolore arrecato alla popolazione civile dai raid russi sulla Siria.

LE PAROLE DELLA MERKEL

Giunta in Turchia per discutere di crisi migratorie, Angela Merkel, che col suo Paese preme sulle Nazioni Uniti per far sì che sia rispettata la risoluzione di dicembre che impegna le parti in conflitto in Siria a fermare gli attacchi sui civili, ha detto:
“Siamo, negli ultimi giorni, non solo agghiacciati ma anche scioccati dalle sofferenze umane di migliaia di persone per i bombardamenti aerei e anche per gli attacchi che provengono dalla parte russa”. Per quanto riguarda, invece, i migranti che giungono nel Vecchio continente, l’Unione europea a novembre 2015 si è impegnata a dare 3 miliardi di euro alla Turchia in cambio di un arresto del flusso di migranti irregolari che viaggiano verso i paesi membri dell’Unione europea. Ora c’è da mettere in atto il piano di contenimento pagato dall’Ue e valutarne possibili implementazioni.

LA POSIZIONE DI ABU DHABI

Domenica, invece, durante una conferenza stampa ad Abu Dhabi, il ministro degli Affari Esteri degli Emirati Arabi Uniti, Anwar Gargash, ha detto che il suo paese da sempre pensa che per una vera campagna militare contro lo Stato islamico servano uomini a terra in Siria. È la risposta a un invito più o meno aperto fatto dall’Arabia Saudita: la potenza del Golfo qualche giorno fa aveva dato la propria disponibilità a mandare soldati sul territorio siriano per combattere l’Isis.

Nel frattempo è spuntato un articolo della CNN araba in cui due fonti hanno rivelato che c’è già un piano che prevede l’invio di 150 mila militari in Siria: a dirigere le operazioni sarà Riad, che però ha già ricevuto l’appoggio non solo degli Emirati, ma anche di Egitto, Bahrein, Qatar, Marocco, Giordania, Malesia, Indonesia e Brunei. A leggere i nomi, sembra di sfogliare la lista di aderenti a quella che è stata definiti la “Nato islamica”, un’alleanza promossa dai sauditi per gestire militarmente emergenze regionali.

IL PERICOLO DI SOLDATI SUNNITI IN SIRIA

Il Pentagono aveva accettato l’iniziale proposta di Riad (che non ha ufficializzato il piano descritto dalla CNN), pensando pericolosamente di parlarne con gli altri alleati della Coalizione già ad un vertice tra i ministri della Difesa dei paesi aderenti che si terrà giovedì a Bruxelles. Si dice pericolosamente perché non c’è un piano, un programma, una strategia (vedi lo Yemen): schierare forze arabe sunnite in un territorio dove gli odiati sciiti al governo, appoggiati dagli sciiti iraniani, combattono più che i baghdadisti gli altri ribelli sunniti, è mettere una botte di benzina su un fuoco che già brucia di brutto, e infatti molti analisti sostengono che l’invio di soldati sauditi ed alleati, significherebbe trasformare il conflitto proxy con l’Iran in una vera e propria guerra aperta. Per capirci: il giorno prima dell’annuncio degli Emirati, quando già si iniziava a parlare del fatto che alcuni paesi del Golfo potessero seguire le indicazioni saudite (aveva cominciato il Kuwait a mettersi tra i volonterosi), il ministro degli Esteri siriano, Walid al-Muallem, aveva prima usata una via semi-diplomatica, spiegando che senza “il nostro consenso la presenza di quei soldati] sarebbe un’aggressione verso di noi che dovrebbe essere contrastata da tutti i cittadini”, poi era stato più chiaro: “Ci spiace che dovranno tornare a casa dentro bare di legno” se mettono piede in Siria.

I GUADAGNI SUL CAMPO DEI GOVERNATIVI

Queste posizioni forti prese dalla Siria sono dovute innanzitutto alle divisioni culturali, etnico-religiose, politiche e geopolitiche tra Damasco e il Golfo, ma soprattutto alla contingenza attuale: sono parole da bulli legate al fatto che l’esercito siriano in questo ultimo periodo sta riprendendo forza grazie ai martellanti raid aerei russi e all’azione sul campo delle milizie sciite irachene e afghane, mosse e cooptate dall’Iran. I soldati di Damasco, nonostante tutto, restano scarsi, carne da cannone senza addestramento: un esempio, un video diffuso domenica dai ribelli (pare appartenenti al gruppo Jaish al Islam, dunque ci troveremmo nella zona di Idlib), in cui tre/quattro miliziani ben appostati dietro un edificio falciano a dozzine i militari siriani: un tiro al bersaglio che dimostra come le mosse dei governativi siano spesso istintive e poco preparate.

LATO IRAN

Se i russi sono la spinta per i soldati di Assad, gli iraniani, milizie a parte (altra carne da cannone) sembrano un po’ in difficoltà. Non sono più il riferimento politico di larghe fette dell’élite al potere che si stanno allineando completamente verso la Russia, e per questo stanno inviando messi diplomatici a Mosca per cercare un aiuto tornare a galla, mettendo sul piatto una contropartita economica, legata all’acquisto di armi russe (in uno dei tour moscoviti, lo storico consigliere militare della Guida suprema Ali Akbar Velayati, aveva sostenuto che i “nostri due paesi devono combattere insieme la minaccia dell’Occidente”). Mentre sul terreno perdono uomini, tanto che Teheran ha inviato un’altra unità di forze speciali, la Saberin. Una volta uno dei comandanti storici di questi commandos iraniani, spiegò che il ruolo dell’unità era quello di “consolidare” i guadagni della Rivoluzione islamica: guadagni però ottenuti dai russi, mentre gli ufficiali iraniani continuano a morire in Siria, l’ultimo si chiama Mohsen Ghajarian ed è stato ucciso proprio ad Aleppo con altri sei uomini di una milizia paramilitare sciita.

LA SOLUZIONE DIPLOMATICA NON ESISTE

Si combatte, tanto che l’intensificarsi delle azioni militari dirette da Mosca, ha fatto saltare il tavolo negoziale (in realtà partito già male) a Ginevra: il delegato Onu per la crisi siriana, ha detto che non si può negoziare e combattere allo stesso tempo, o per dirla come un editoriale del Corriere della Sera “quando a parole dunque Mosca benediceva i tentativi di processo di pace, in realtà praticava la guerra”.

LATO TURCHIA

La Turchia, che in questo periodo è ai ferri corti con Mosca formalmente per la vicenda del Sukhoi abbattuto da Ankara, in realtà perché gli attacchi russi stanno colpendo molti dei gruppi ribelli che i turchi sostengono come vettore anti-Assad all’interno del conflitto siriano, è un altro esempio di come gli equilibri si stanno ancora di più sconvolgendo. Il presidente Recep Tayyp Erdogan ha detto ai giornalisti presenti sul volo di ritorno da una visita di stato in America Latina, che il suo paese non deve compiere con la Siria “lo stesso errore fatto con l’Iraq” (il riferimento è a quando nel 2003 il governo turco negò agli Stati Uniti l’uso del proprio territorio per l’invasione irachena). Erdogan, riporta Bloomberg, ha aggiunto che se i ribelli dovessero perdere troppo terreno, potrebbe essere pronto ad inviare truppe di terra in Siria, anche lui. E dunque anche la Turchia sarebbe pronta a muoversi seguendo una certa indipendenza, pur di tenere in piedi i punti principali della propria agenda geopolitica (in Siria e oltre).

La situazione siriana, per la Turchia, sta prendendo due pessime pieghe: da un lato i guadagni governativi dell’odiatissimo Bashar el Assad, dall’altro i rapporti americani con i curdi siriani, altri nemici turchi perché alleati del Pkk (Brett McGurk, l’inviato del presidente Barack Obama per la coalizione internazionale contro Stato islamico, la scorsa settimana s’è fatto fotografare a Kobane mentre stringeva le mani dei capi militari e politici curdo-siriani, una mossa che in molti hanno letto come un riavvicinamento, una legittimazione delle azioni, dopo che la Russia aveva iniziato anch’essa a dare sostegno sul campo all’YPG, fosse altro per dispetto ai turchi).

LA CRISI MIGRATORIA

Il presidente Erdogan ha anche annunciato di essere pronto ad aprire i propri confini “se necessario”: l’intensificarsi dei combattimenti nell’area di Aleppo, tra le varie conseguenze, ha anche creato una nuova grossa ondata migratoria. L’area si stima ospiti ancora 350 mila persone, rimaste a vivere nelle proprie abitazione nonostante la guerra intorno. Migliaia di profughi stanno in questi giorni lasciando la città diretti verso la Turchia, che però per il momento ha fatto passare solo i feriti o i malati (il presidente turco non ha perso l’occasione per accusare i russi di essere i “responsabili della crisi umanitaria e migratoria”) e si è limitata a fornire generi di prima necessità e cure mediche leggere attraverso convogli di aiuti che sono entrati in territorio siriano, racconta la Reuters. Si parla già di circa trenta mila persone arrivate nelle ultime 48 ore, mentre diverse decine di migliaia potrebbero partire nei prossimi giorni. Un dato che non va dimenticato quando si parla di Siria: i morti sembrano essere 250 mila, ma i profughi totali, sfollati interni e migranti, hanno raggiunto cifre intorno ai dieci milioni.

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