Fuori ormai dal Parlamento e dai partiti, ospite sempre più spesso dei salotti televisivi per commentare con la competenza del poliziotto e del magistrato di una volta le retate di turno, che purtroppo non mancano mai, Antonio Di Pietro si può permettere il gusto di sorvolare sulle attualità più strette della politica. Per esempio, sulle acrobazie tattiche di Matteo Renzi per salvare le unioni civili, e connessi, dal vicolo cieco in cui le aveva cacciate lasciando corteggiare gli imprevedibili grillini per una maggioranza alternativa a quella di governo.
Tonino, come lo chiamano ancora gli amici, preferisce ricongiungersi finalmente con il suo vecchio superiore alla Procura di Milano, Francesco Saverio Borrelli, in un’analisi finalmente disincantata di quella che sembrò l’epopea delle loro Mani pulite. Come vengono tuttora definite le indagini giudiziarie che nel biennio 1992-93 decapitarono i partiti di governo, già indebolitisi di loro – bisogna riconoscerlo – con un sistema di finanziamento illegale e screditante, per quanto condiviso dalle opposizioni scampate però alla decimazione.
Anche Di Pietro, sopraffatto dal presente, si è chiesto se fosse valsa allora la pena terremotare così tanto il Paese. Un dubbio espresso già qualche anno fa da Borrelli, spintosi a chiedere “scuse” rapidamente accordategli in un libro autobiografico e compiaciuto da una vittima illustre di quella stagione: l’allora ministro socialista della Giustizia Claudio Martelli, considerato d’altronde dallo stesso Borrelli, dopo la caduta per un avviso di garanzia, come il migliore o fra i migliori guardasigilli succedutisi nella cosiddetta e odiata prima Repubblica.
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Avventuratosi nel mondo dei partiti nel 1996, prima come ministro dei Lavori Pubblici nel governo di Romano Prodi e poi come senatore dell’Ulivo nel blindatissimo collegio rosso del Mugello offertogli dall’allora segretario del Pds-ex Pci Massimo D’Alema, mentre a Milano Borrelli augurava ironicamente al suo ex sostituto di potersi sentire finalmente realizzato, Di Pietro ha scoperto o riconosciuto che “la politica porta guai”. Lo ha detto col cuore in mano su un treno ad Augusto Minzolini, già “principe” dei retroscenisti politici e poi direttore del Tg1. Che, in attesa di decadere da senatore per avere rimediato una condanna definitiva a poco più di due anni per spese personali pagate con la carta di credito aziendale della Rai, è tornato a fare con la solita bravura e fortuna il suo mestiere di giornalista. La fortuna, per esempio, di incontrare in viaggio ferroviario da Roma a Milano l’ex senatore e leader di Italia dei Valori in vena di confidenze, per niente trattenuto dalla circostanza di parlare con un amico e sostenitore dell’odiato Silvio Berlusconi. Al cui quotidiano di famiglia Minzolini collabora essendogli ormai precluso, credo, il ritorno alla Stampa, la sua testata d’origine.
I “guai” della politica Di Pietro ha potuto sperimentarli sulla propria pelle, preferendo dividersi adesso fra l’olio che produce nella sua terra molisana e la professione di avvocato.
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Fra le confidenze che Minzolini è riuscito a strappare all’ex magistrato ed ex politico, ce n’è una che vorrei segnalare per il buon senso e la correttezza che forse sorprenderanno i suoi abituali critici.
E’ la decisione di Di Pietro di non esercitare la professione di avvocato a Milano per togliere dall’imbarazzo i tanti magistrati con i quali egli ha condiviso anni di lavoro, di amicizia e di concorrenza. Magistrati che in effetti potrebbero ora trovarsi in difficoltà a dargli torto o ragione come difensore di un imputato.
Peccato però che Di Pietro in passato e i suoi ex colleghi oggi non si siano mai posti e non si pongano il problema della legittima ma imbarazzante prerogativa che hanno di giudicare tra di loro, sia pure in distretti giudiziari diversi, i tanti giornalisti alle cui critiche reagiscono sentendosi diffamati e ottenendo spesso fior di risarcimenti.
E’ come se ai medici fosse riservato il diritto di essere giudicati da medici, agli ingegneri da ingegneri, ai giornalisti da giornalisti. Cosa che per un bel po’, peraltro, è stato sostanzialmente permesso ai politici, prima che venisse abolita, quasi a furor di popolo, tra insulti e lanci di monetine in piazza, l’autorizzazione a procedere nelle indagini giudiziarie nei loro riguardi, lasciandola solo per il ricorso all’arresto e alle intercettazioni.