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Che cosa combina Enrico Letta?

C’è del vero, e non solo del divertente, nel racconto del suo lavoro che Massimiliano Cencelli, l’amico del compianto Adolfo Sarti e autore di uno storico manuale con il quale si procedeva nella Dc alla distribuzione dei posti di partito e di governo, ha affidato al Fatto Quotidiano in occasione della ristampa di quello che fu qualcosa di più di un opuscolo.

Non c’erano ancora, in quei tempi, i calcolatori di oggi, contenuti in un banale telefonino e attivabili in pochi secondi. Eppure il manuale Cencelli serviva con efficacia sorprendente a fare le cose tanto rapidamente quanto per bene. Bastava partire dalla percentuale raggiunta da una corrente in un congresso, al lordo – bisogna ricordarlo – degli iscritti d’ufficio o fasulli, magari morti, per far sapere al presidente del Consiglio o segretario di partito di turno quanti e quali posti spettassero agli amici di Giulio Andreotti. O di Ciriaco De Mita. O di Carlo Donat-Cattin. O di Amintore Fanfani, o poi di Arnaldo Forlani. O di Aldo Moro. O di Flaminio Piccoli, o di Mariano Rumor, comprensivi o no di quelli di Antonio Bisaglia o di Antonio Gava. O di Franco Restivo, e prima ancora di Mario Scelba. O di Paolo Emilio Taviani. Tutti elencati in ordine rigorosamente alfabetico. E con molte scuse agli eredi, veri o presunti, dei capi o sottocapi di corrente eventualmente dimenticati in questo mio elenco – vi assicur o- in buona fede, senza malizia.

Mi sono fidato della memoria, e della specializzazione in “eurologia” conferitami una volta da Indro Montanelli scherzando sulla conoscenza che avevo dei fatti e degli uomini nello scatolone di cemento armato che ospitava all’Eur, appunto, la sede della Dc. Dove si riuniva sì il Consiglio Nazionale e lavoravano centinaia di dipendenti, ma non si svolgeva tutto, perché si sanciva spesso solo quello che veniva concordato prima nel più contenuto e centrale palazzo di Piazza del Gesù, più frequentato per la vicinanza alla Camera, al Senato, a Palazzo Chigi e alle sedi degli altri partiti, alleati o di opposizione, a cominciare dal Pci. Che “abitava” in via delle Botteghe Oscure, proprio dietro Piazza del Gesù, in una vicinanza tanto tragicamente galeotta che proprio in quella specie di quadrilatero, o triangolo, le brigate rosse lasciarono il 9 maggio 1978, stipato nel bagagliaio di un’auto rossa posteggiata in via Caetani, il corpo di Aldo Moro crivellato di colpi dopo 55 giorni di prigionia.

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Dove Massimiliano Cencelli si è avventurato troppo è il terreno delle analogie fra la Dc di Fanfani e il Pd di Matteo Renzi, immaginando o sperando che i due toscani, pur così diversi fra loro fisicamente, condividano anche la fine del loro comune interesse al potere. L’interesse cioè ad occupare con amici di stretta osservanza il maggior numero possibile di posti. Un interesse peraltro che il Fanfani di prima maniera, quello della fine della seconda metà degli anni Cinquanta, avvertiva e praticava senza le regole poi codificate, diciamo così, nel manuale dell’amico di Sarti, arrivato solo nel 1967, quando a Palazzo Chigi c’era Aldo Moro, a Piazza del Gesù Mariano Rumor e al Viminale Paolo Emilio Taviani. Che improvvisò una nuova corrente per fare da ponte fra la maggioranza del partito, dominata dai “dorotei” dell’allora segretario, e le sinistre, particolarmente quella dei basisti guidata al nord da Giovanni Marcora, Albertino per gli amici degli anni della Resistenza in clandestinità, e al sud da Ciriaco De Mita. Una corrente, quella tavianea, chiamata perciò dei pontieri, di cui il ligure Taviani era il capo, il piemontese Sarti l’ambasciatore e l’abruzzese Remo Gaspari l’organizzatore.

“Quando Fanfani si prese tutto”, dalla segreteria del partito alla guida del governo e al Ministero degli Esteri, “gli si ribellò contro mezzo partito e fu sconfitto. E Fanfani era un duro”, ha raccontato Cencelli evocando la rottura consumatasi nella maggiore corrente della Dc in una riunione ospitata nel Convento di Santa Dorotea, sulla salita del Gianicolo, dove decollò la segreteria di Aldo Moro. Ma soprattutto immaginando o desiderando che qualcosa di simile, prima o dopo, accada anche a Renzi.

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Non so, francamente, se l’ottantenne Cencelli conosce il Nazareno, la sede del Pd, meglio di me, che ho pochi anni meno di lui ma non ci ho mai messo piede, e ne so solo ciò che raccontano i giornali. So però che quelli che fanno l’opposizione o solo la fronda a Matteo Renzi non sono neppure paragonabili ai protagonisti della rivolta dorotea contro Fanfani: da Antonio Segni, che sarebbe poi diventato presidente della Repubblica, ad Emilio Colombo, da Taviani a Moro. Cui vorrebbe forse assomigliare in qualche modo il cinquantenne Enrico Letta. Ma di Moro manca all’ex presidente del Consiglio, a dir poco, la costanza, per non parlare d’altro.

A Moro, per esempio, che conobbe nel 1968, all’età di 52 anni, l’amarezza di un clamoroso rovescio, quando fu allontanato da Palazzo Chigi dai dorotei di Rumor e di Piccoli, che lo scavalcarono disinvoltamente a sinistra nei rapporti con i socialisti e con l’opposizione comunista, cui offrirono una edizione del centro-sinistra enfaticamente definita “più incisiva e coraggiosa”, non passò neppure per la testa l’idea di reagire dimettendosi dal Parlamento ed entrando ogni tanto di straforo nel dibattito politico, come sta facendo Enrico Letta, fra una lezione universitaria a Parigi, un’intervistina telefonica e una conferenza evocatrice del compianto Beniamino Andreatta e dell’altrettanto compianto Ulivo del superstite Romano Prodi.

L’ostinato Moro rimase in campo a lottare e dopo dieci anni tornò ad essere il regolo della democrazia italiana, e non solo della Democrazia Cristiana. A fermarlo, sequestrandolo, assassinandolo e lasciandone il cadavere dietro la sede del suo partito, come ho già ricordato, furono solo le brigate rosse.  E fra i pochi a cercare di salvargli davvero la vita era stato il suo ormai ex antagonista Fanfani, il progenitore – secondo Cencelli – di Matteo Renzi.


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