Nel bel mezzo dell’ennesima crisi politica e mediatica della sinistra, che rincorre curiosamente la destra nella ricerca di un’identità perduta, se mai entrambe l’hanno avuta davvero negli ultimi vent’anni, deve essere stato un nostalgico tuffo nel passato quello che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha fatto nella Sala Koch di Palazzo Madama. Dove, accolto e accompagnato dal presidente del Senato Pietro Grasso, ha assistito alla celebrazione di Carlo Donat-Cattin, a 25 anni dalla morte. Celebrazione promossa dall’omonima Fondazione presieduta dal figlio dell’ex ministro e autorevole dirigente della Dc, Claudio.
Fu un leader decisamente scomodo Carlo Donat-Cattin, provato anche da una tragedia familiare che pagò politicamente con le dimissioni da vigoroso vice segretario della Dc, quando seppe dall’allora presidente del Consiglio Francesco Cossiga che il figlio Marco era un terrorista rosso, latitante in Francia dopo avere partecipato all’assassinio del giudice Emilio Alessandrini, la mattina del 29 gennaio 1979 a Milano.
Per quella confidenza – grazie alla quale Donat-Cattin potette poi contribuire alla spontanea consegna del figlio alla magistratura italiana, la cui condanna il giovane scontò prima di morire in un’autostrada soccorrendo generosamente nella nebbia i feriti di un incidente altrui, come in un casuale e tragico riscatto dall’errore della sua passata militanza terroristica – Cossiga rischiò un processo davanti alla Corte Costituzionale. Che era allora competente a giudicare i ministri, e non solo il capo dello Stato.
A promuovere in Parlamento, per quanto inutilmente, il cosiddetto impeachment dell’allora presidente del Consiglio fu con ostinazione il Pci guidato dal conterraneo e pro-cugino Enrico Berlinguer. Che reagì a chi gli chiedeva comprensione che per onorare una parentela dovesse bastare e avanzare nella sua Sardegna il capretto da consumare insieme a Pasqua. Ciò tuttavia non avrebbe impedito dopo soli 5 anni allo stesso Pci, nel frattempo passato sotto la guida di Alessandro Natta per la morte di Berlinguer, di contribuire in modo decisivo all’elezione di Cossiga al Quirinale.
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Delle tragiche vicende familiari, comprensiva del primo infarto subito davanti al carcere dove aveva accompagnato la moglie a visitare il figlio, non si è quasi parlato nel convegno celebrativo di Carlo Donat-Cattin, in un lodevole sussulto di rispetto e riservatezza della politica, peraltro rappresentata in sala da reduci di una lontana stagione: quella della cosiddetta prima Repubblica, decisamente migliore, per i gusti di chi scrive, delle successive edizioni.
Si è parlato solo della politica dello scomparso leader democristiano per restituirgli il merito, come ha ricordato l’amico e discepolo Franco Marini, di non essergli mai “piaciuto di piacere”, preferendo il popolarismo al populismo, la durezza delle decisioni alla comodità o illusione del rinvio, o delle promesse impossibili. Cosa che ne caratterizzò l’azione di sindacalista, nella Cisl, di ministro dell’Industria prima, del Lavoro poi e infine della Sanità, e di dirigente di partito, peraltro trattenuto nel 1968 da Aldo Moro nella tentazione di uscirne da sinistra.
Nel suo intervento Marini, peraltro ex presidente del Senato, ha rivendicato a Donat-Cattin anche il pregio di avere praticato un anticomunismo tanto coerente quanto democratico, incorrendo nella temeraria e sbrigativa classificazione di uomo di “destra” – lui, leader della sinistra sociale della Dc chiamata “Forze Nuove”- da parte del Pci. Cosa, questa, che Marini ha amichevolmente contestato all’ex senatore comunista Emanuele Macaluso. Che ha partecipato alla celebrazione facendo implicita e onesta autocritica nel momento in cui ha elogiato pure lui Donat-Cattin come uomo di sindacato, di partito e di governo. E ne ha lamentato la mancanza in un momento di così grave crisi di credibilità della politica.
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L’intervento più puntuto a favore dello scomparso leader democristiano, fra l’introduzione dello storico Francesco Malgeri e le conclusioni di Pier Ferdinando Casini, è stato quello dell’ex ministro del Lavoro Maurizio Sacconi, di provenienza socialista. Che ha elogiato, in particolare, il coraggio avuto da Donat-Cattin nel congresso dc del 1980, quando scrisse di suo pugno il documento, noto come “preambolo”, con cui si chiudeva la stagione politica della cosiddetta solidarietà nazionale, cioè la collaborazione parlamentare col Pci, e si ripristinava l’alleanza di governo con i socialisti e i partiti laici minori.
Fu una stagione, quella della solidarietà nazionale, nella quale – ha impietosamente ricordato Sacconi – si governò poco, a suon di compromessi, e si cominciò a spendere troppo, con effetti che scontiamo ancora. Una stagione invece che la sinistra democristiana, alla quale si affacciava l’allora giovane Sergio Mattarella, dopo l’assassinio mafioso del fratello Piersanti, avrebbe preferito continuare e sviluppare, per quanto fosse tragicamente scomparso, per mano delle brigate rosse, il leader che ne aveva favorito l’avvio con la sua solita cautela, e in una prospettiva limitata: il povero Aldo Moro. Di cui l’intera famiglia Mattarella era stata estimatrice e sostenitrice.