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Corea del Nord, stato di natura e stato di guerra

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Non cessano i pericoli per il mondo provenienti dalla Corea del Nord, dopo che il governo guidato da Kim Jong-Un ha esibito pubblicamente tutto il suo potenziale nucleare.
Adesso un comunicato della Commissione nazionale Difesa di Pyongyang, pubblicato dall’agenzia ufficiale nordcoreana Kcna, minaccia un “attacco nucleare preventivo e offensivo” come risposta alle esercitazioni militari congiunte di Stati Uniti e Corea del Sud che sono state avviate oggi e che proseguiranno fino al 30 aprile, coinvolgendo ben diciassettemila soldati americani e quasi trecentomila sud-coreani.

Le manovre, note con i nomi ‘Key Resolve’ e ‘Foal Eagle’, sono le più imponenti mai fatte nella penisola coreana, e intendono essere un’evidente reazione di risposta appunto a Pyongyang per il test nucleare di gennaio e il razzo lanciato a febbraio.
È difficile valutare fino in fondo la reale portata dell’enfatica politica di guerra portata avanti dal governo nordcoreano, sebbene due fatti siano indiscutibili: il primo è l’enorme consenso interno che questo nazionalismo aggressivo produce, con tutta l’esuberanza irrazionale che si associa al populismo asiatico più bieco e miope. Il secondo è il potenziale nucleare in possesso dal Paese che spaventa e suscita sentimenti di terrore ovunque.

Anche per la posizione geografica, nessuno si può sentire veramente al sicuro, né gli Stati Uniti, né l’Europa. E a prescindere da come procederà il braccio di ferro, conviene sperare che il guadagno capitalizzato in termini di consenso da parte di Jong-Un, nel far vedere i muscoli al mondo, sia di fatto maggiore rispetto ai rischi che potrebbero emergere con un’escalation del conflitto o con un eventuale passaggio alla logica di guerra.
Certo, l’apertura alla possibilità di un uso preventivo dell’atomica, per altro smentito in passato dal governo anche in occasione degli esperimenti precedenti, non fa presagire nulla di buono. E a poco sono servite, neanche a dirlo ormai, le sanzioni delle Nazioni Unite, cadute nel solito vuoto pneumatico.

Alcune valutazioni generali sul significato di questi atti di forza può essere utile. Ormai ci troviamo davanti ad un mondo che non trova facili motivi di aggregazione. La parcellizzazione degli scenari, la mancanza di punti strategici di accordo, è divenuta una premessa maggiore per ogni ragionamento diplomatico e una consapevolezza costantemente diffusa dappertutto. Ogni volta che si manifesta un problema d’instabilità aggressiva in qualche parte del mondo, come avviene in questo caso, si è costretti ad affidarsi a deterrenti che hanno geometrie variabili e mai prospettive di sistema. È questo un elemento di enorme debolezza, perché finisce per alimentare spazi politici pericolosissimi, senza il controllo internazionale e senza una concreta resistenza difensiva da parte di superpotenze.

Ciò non significa, tuttavia, che non esistano, in una fase così dinamica e caotica, due concezioni del mondo contrapposte e in lotta tra loro. È vero, insomma, che non s’impongono più le ideologie, e che il baricentro è regionale, spessissimo legato a clan, come in Libia e in Iraq, o a fortissimi sentimenti nazionalistici, come in Corea e in Russia, ma una discriminante resta sicuramente costituita dai valori etici che separano alcuni Paesi che credono in una logica pacifica e umana di organizzazione della vita, rispetto ad altri che invece scommettono sugli scenari di guerra e sulla distruzione di massa d’intere popolazioni.
Il fronte internazionale di questo nostro tempo si lascia ben descrivere da quanto diceva John Locke agli inizi della modernità: “È evidente la differenza tra lo stato di natura e lo stato di guerra, tanto lontani l’uno dall’altro quanto uno stato di pace, assistenza e difesa reciproca è lontano dallo stato d’inimicizia, malvagità, violenza e reciproco sterminio”.

E in un binomio del genere, l’unico modo per difendere i valori umani, ossia quel modo di vivere libero e naturale della nostra civiltà, è combattere, con armi diplomatiche e militari, contro tutti quei governi che vogliono portarci a un futuro in cui non si verserà più inchiostro ma soltanto sangue. Che si chiami Isis o Corea del Nord non è più sufficiente, in definitiva, restare tranquilli seduti nel nostro “giardino naturale”, quando attorno a noi cresce l’ideologia del male e della morte.
Per misurare quanto sia cambiata la realtà rispetto al secolo scorso, basta riflettere sul fatto che il principio base della Società delle Nazioni, pensata e voluta cento anni fa dal presidente Woodrow Wilson, con la firma del trattato di Versailles del 1919, si fondava sull’utopia kantiana di una pace perpetua e sull’assioma di “rispettare e preservare contro le aggressioni esterne” l’integrità territoriale degli altri Stati, procedendo a un disarmo “al punto più basso compatibile con la sicurezza nazionale”. È da queste idee che sono nate, dopo la Seconda Guerra Mondiale, le Nazioni Unite.

Attualmente, però, è difficile pensare che il rispetto dell’integrità di nazioni come la Corea del Nord o come la Siria, e domani dello Stato Islamico, possa valere come principio, perché lì si mostra una chiara volontà di aggressione e di violenza contro gli altri, perpetrata tanto all’interno quanto all’esterno.
La pace, purtroppo, costa cara, e non sempre è possibile salvaguardarla con un ponderato equilibrio di forze. Non è stato così contro Adolf Hitler e Josif Stalin, lo sarà ancora meno contro Jong-Un, Bashar al-Assad o Abu Bakr al-Bagdadi. In fin dei conti, per impedire lo stato di guerra, purtroppo, con tutti i suoi focolai incendiari, sarà necessario difendere con forza lo stato di natura, umano, libero e democratico, neutralizzando implacabilmente soprattutto chi lo minaccia militarmente, tanto in Africa e in Medioriente, quanto in Asia.


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