La vicenda dei quattro ostaggi italiani della ditta Bonatti di Parma (Salvatore Failla e Fausto Piano uccisi in un conflitto a fuoco il 3 marzo e Filippo Calcagno e Gino Pollicardo tornati liberi il giorno successivo) ha permesso di chiarire alcuni punti politico-militari sulla Libia che per ritrosia, disinformazione e polemiche sembravano confusi.
Le parole pronunciate dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi, domenica 6 marzo a Domenica live su Canale 5 non lasciano spazio a dubbi: «Con 5.000 uomini a fare l’invasione della Libia l’Italia con me presidente non ci va». Il riferimento non casuale era all’intervista dell’ambasciatore americano John R. Phillips che al Corriere della Sera del 4 marzo aveva citato quel numero con il consueto corollario della leadership italiana per una missione di cui ancora non si intravedono i contorni giuridici. La sortita di Renzi non dev’essere piaciuta all’ambasciata di Via Veneto che nella serata del 7 marzo ha diffuso una precisazione di Phillips, con una vena polemica: «Spetta all’Italia decidere e definire il suo impegno», è scritto in un comunicato dell’ambasciata; nell’intervista l’ambasciatore ha «semplicemente detto che l’Italia ha pubblicamente indicato la sua volontà di inviare circa 5.000 uomini» rispondendo a una domanda su una forza di stabilizzazione che «il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, chiama Liam». Un velenoso riferimento a vecchie dichiarazioni del ministro. Se però è vero che «gli accordi “segreti” ne prevedevano 5.000», come ha scritto Guido Olimpio sul Corriere del 6 marzo, è indispensabile un chiarimento diplomatico.
La prudenza del governo sulla Libia non è una novità da parecchie settimane, ma gli eventi del 3 e 4 marzo hanno infuocato il dibattito: Corriere della Sera e Sole 24 Ore il 3 marzo danno la notizia del decreto del presidente del Consiglio del 10 febbraio che autorizza l’uso delle forze speciali come supporto alle attività di intelligence e con le relative garanzie funzionali, ipotesi prevista dal decreto missioni del 2015; lo stesso giorno Failla e Piano vengono uccisi in un conflitto a fuoco mentre vengono trasferiti dai loro carcerieri; il 4 marzo gli altri due ostaggi, rimasti soli, fuggono dalla casa dov’erano rinchiusi. Dalla ricostruzione fatta nelle convulse ore successive alla liberazione, anche dagli stessi Calcagno e Pollicardo ascoltati dalla procura di Roma e dal Ros dei carabinieri, sembra di capire che i complicati contatti che i nostri servizi segreti hanno avuto nei mesi scorsi erano giunti a un passo dalla liberazione degli ostaggi e che solo l’imprevedibile conflitto a fuoco con milizie anti jihadiste ha causato la tragedia.
In attesa del via libera del sempre ipotetico governo libico, che porterebbe a missioni mirate delle forze speciali, nei giorni scorsi sulla stampa sono usciti numeri e ipotesi davvero fantasiosi. Un autorevole quotidiano ha scritto che avremmo mandato in Libia «dai tre ai cinquemila uomini appartenenti al Tuscania, alla Folgore e al San Marco», sbagliando di diverse migliaia di unità. Magari l’Italia avesse migliaia di uomini di forze speciali… Piuttosto, si dimentica che in questo momento sono 5.200 i militari impegnati nelle missioni internazionali, oltre 6.300 nell’operazione Strade sicure in Italia e che presto aumenterà l’impegno in Irak. E la coperta è sempre più corta.
Già, l’Irak. Le polemiche libiche hanno fatto dimenticare che tra un po’ l’Italia sarà in prima linea contro l’Isis, anche se non lo si dice apertamente forse perché non sono ancora sicuri i tempi. Si attende il via libera del governo ai circa 130-150 uomini destinati a Erbil con funzione di «personnel recovery», cioè di recupero di feriti e dispersi in zone di combattimento, al posto degli americani che intendono spostarsi in Turchia per svolgere lo stesso compito in Siria. In attesa di conoscere i dettagli su numeri e mezzi, è evidente che quella funzione significa dover operare in zone ad altissimo rischio, cioè dove operano le forze speciali alleate. Ma non è tutto. Tra qualche mese cominceranno i lavori di consolidamento della diga di Mosul da parte dell’azienda Trevi spa, il cui amministratore delegato, Stefano Trevisani, ha detto a Repubblica del 7 marzo che il cantiere sarà pronto a fine luglio. «Le milizie dell’Isis sono a 10 chilometri», ha aggiunto preoccupato. Anche in questo caso non si conoscono ancora né il numero esatto di militari né il tipo di mezzi che dovranno fornire la sicurezza all’azienda italiana (diverse centinaia di uomini e i carri armati Ariete sembrano scontati). Per la prima volta l’Italia sarà a un passo dall’Isis: la professionalità delle Forze armate non si discute, ma il governo dovrà dire con chiarezza che non sarà una passeggiata.