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Isis e il suicidio dell’Europa

La frase è attribuita ad Alcide De Gasperi, ma forse la sua paternità è di un predicatore americano, James Paul Clarke (1870): “La differenza tra un politico e uno statista sta nel fatto che il politico pensa alle prossime elezioni, lo statista alle prossime generazioni”. Dal canto suo, Jacques Delors disse qualche tempo fa in un’intervista a Le Monde: “Da Pierre Mendès-France ho imparato una grande lezione: è meglio perdere un’elezione che perdere l’anima. Un’elezione si può rivincere dopo cinque anni, che vuole che sia? Ma se si perde la bussola, o si perde l’anima, per ritrovarle ci vogliono generazioni”.

Le due citazioni servono a dare conto dello stato comatoso in cui versa oggi l’Europa. I politici abbondano, gli statisti scarseggiano. Se mi è concessa un’osservazione di cui non nego una certa componente emotiva, sono letteralmente stufo dell’alluvione di analisi, commenti, dichiarazioni, proposte che stanno inondando i media in queste ore. Non è vero che i terroristi islamici hanno colpito la capitale dell’Europa. Perché l’Europa non esiste. C’è la moneta unica, e poi solo il cinismo idiota dei suoi leader, prigionieri di un gretto nazionalismo, talmente diffidenti l’uno dell’altro da rifiutare perfino, non dico la creazione di un’intelligence comune, ma un sistematico scambio di informazioni tra polizie e servizi segreti (intanto qualcuno invoca, colmo dell’ipocrisia, un Procuratore generale dell’Ue). L’Europa è in guerra, ma finge di non saperlo. Sta per suicidarsi, ma eleva barriere tra gli Stati, stringe accordi farlocchi con la Turchia sugli immigrati, continua a litigare su decimali di punto del deficit pubblico, non ha una politica estera (ci dobbiamo accontentare solo delle nobili lacrime di Federica Mogherini per i morti di Bruxelles), non ha una politica di difesa e di sicurezza comune, non ha una politica fiscale e un’unione bancaria degne di queste nome. Una pacchia per le Le Pen, le Petry e i Salvini “de’ noantri”. Siamo sull’orlo di un abisso? Sì, lo siamo.

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Giuristi, costituzionalisti, artisti, letterati, attori, cantanti, registi, scienziati, giornalisti e perfino religiosi: è fitto e autorevole l’elenco degli intellettuali che hanno sottoscritto l’ultimo appello contro l’Italicum e per il no al referendum sulla riforma del Senato. Il testo trasuda un palpitante “spirito partigiano”, come del resto si conviene quando è a rischio -testuale- “la Repubblica democratica nata dalla Resistenza”. Questa volta forse un po’ in chiave di commedia, secondo la nota legge di Marx sulla ripetizione degli eventi storici. Ma si tratta di un dettaglio trascurabile di fronte alla discesa in campo degli intransigenti custodi della nostra Carta, per lo più assai affermati, ossequiati e inseriti in una placida agiatezza (amareggiati, in qualche caso, soltanto dal contegno del fisco). Affinché la protesta contro la tirannide renziana sia davvero forte ed estesa, ovviamente i promotori dell’appello si aspettano molte altre firme, in primis quella di Maurizio Landini. Senza il pugnace sindacalista delle tute blu, infatti, che protesta sarebbe? Possono stare tranquilli: l’avranno di sicuro (se non l’hanno già avuta). D’altronde, osservava Ennio Flaiano citando il sostegno della Fiom a un ormai mitico contro-festival del cinema di Venezia (1972), i “metalmeccanici devono avere un buon carattere: non solo fanno un duro lavoro e non ben compensato, ma corrono in soccorso ai benestanti; e questo è bello, perché i ricchi vanno aiutati, abbiamo già troppi poveri” (“La solitudine del satiro”).

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Ho letto la Carta dei diritti universali del lavoro elaborata dalla Cgil: 97 articoli e alcune centinaia di commi e sottocommi (lo Statuto dei lavoratori ha 41articoli). La Carta, è vero, norma non solo il lavoro dipendente, ma anche quello autonomo. È esattamente questo il punto. Chi rappresenta i salariati pretende di rappresentare anche il lavoro autonomo con una proposta su cui quest’ultimo non ha avuto voce in capitolo. Ma mettiamo pure da parte le ambizioni egemoniche della confederazione di Susanna Camusso, e veniamo alla sostanza del problema. In verità, i problemi sono due. Il primo è culturale, il secondo è politico. Quello culturale è il pangiuridicismo della Cgil, ossia la tendenza a giuridicizzare ogni aspetto e ogni forma del rapporto d’impiego. Quello politico è l’idea di un partito del lavoro (Carta e referendum contro il Jobs Act fungono da sua piattaforma programmatica) come alternativa strategica alla deriva neocentrista del Pd renziano. Fallita la coalizione sociale di Maurizio Landini, rientra in campo un vecchio sogno della Fiom e di Sergio Cofferati. Ma perché la Cgil non torna ad esercitare il suo antico mestiere, che un tempo sapeva fare pure bene?

ECCO GLI APPROFONDIMENTI DI FORMICHE.NET SU ISIS E GLI ATTENTATI A BRUXELLES:

Tutte le sciocchezze su Isis, Bruxelles, Servizi e Corano. Il corsivo di Stefano Cingolani

Bruxelles, la guerra di Isis e l’eutanasia dell’Europa. L’analisi di Benedetto Ippolito

Vi racconto la fiacchezza morale che ci rende inermi davanti a Isis. Il commento di Corrado Ocone

Benvenuti a Bruxelles, capitale di un’Europa imbelle e inconcludente. Il corsivo di Bruno Manfellotto

Attentati a Bruxelles, come combattere con efficacia il terrorismo. L’analisi di Ennio Di Nolfo

Salah, Molenbeek e il jihad made in Europe. Il post del sociologo Marco Orioles

Tutte le bufale circolate sui media dopo la strage a Bruxelles. La ricostruzione di Alma Pantaleo

Così Clinton e Trump si rintuzzano anche sugli attentati a Bruxelles. L’articolo di Giampiero Gramaglia

Attacco terroristico a Bruxelles, tutti i dettagli. La ricostruzione di Emanuele Rossi

Bruxelles, da “non luogo” a capitale del terrore. Il corsivo di Guido Mattioni

Vi racconto tutto di Molenbeek. La testimonianza di Enrico Martial

Perché il Belgio è considerato “la culla del jihadismo” in Europa. L’approfondimento di Rossana Miranda


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