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Vi racconto mio nonno, Guido Carli

Di Romana Liuzzo

Guido Carli era mio nonno. Non il Governatore della Banca d’Italia, non il presidente di Confindustria, non il ministro del Tesoro. Per me, era solo un nonno: il mio.

Un uomo all’antica, ma moderno. Che non mi ha insegnato nulla a parole ma tutto con l’esempio. La sera, quando tornava stanco dai suoi viaggi, mi chiamava nella sua stanza. Io mi accoccolavo ai piedi del suo letto e da ragazzina curiosa qual ero gli facevo mille domande.

Una volta avevo letto sui giornali che Guido Carli era il primo contribuente italiano. Ma se mi guardavo intorno in casa, certamente bellissima, non c’era sfarzo né sfoggio di “denari”, come li chiamava lui. Allora gli chiesi: “Nonno, ma tu sei l’uomo più ricco d’Italia?”. “Forse, solo il più onesto”, rispose lui. Accidenti, pensai io che allora ero adolescente, “pure un nonno fesso”.

Negli anni ho elaborato la sua risposta e ho capito che non è furbo chi ruba al proprio Paese. E’ solo disonesto. Io ho scelto di stare dall’altra parte. Quella di chi deve fare i conti a fine mese, guardandosi allo specchio sapendo di non aver tolto nulla al proprio vicino di casa. E non mi sento brava, solo normale.

Quando volevo incontrare nonno per consigli ufficiali, chiamavo la mitica signora Berni, sua affezionata e fedele segretaria, come lo è Lina Coletta per Gianni Letta. Non una segretaria qualunque ma una donna speciale. E chiedevo un appuntamento con il “dottor Carli”. Così lo chiamavo, anche in casa, perché a lui faceva tanto ridere. Aspettavo il mio turno e andavo a trovarlo nel suo studio in via Due Macelli. Era una scuola di vita la sua stanza. Un vero romanzo con le voci di Carlo Azeglio Ciampi, Giulio Andreotti ed Eugenio Scalfari.

Negli anni del terrorismo arrivò la scorta e la macchina blindata. A scuola, al Mamiani, i compagni del liceo mi prendevano in giro perché non mi facevo le canne e perché all’uscita, qualche volta, c’era quella macchina con gli sportelli pesanti e i vetri scuri, rinforzati. All’inizio dell’anno, per ben tre volte, fui buttata in fontana tutta vestita. Questo aneddoto lo racconto spesso a mio figlio Guido che, non a caso, si chiama così, per fargli capire che a volte essere diversi o considerati tali ti dà solo più forza. La forza delle proprie idee. A fine anno, a scuola tutto era cambiato, i compagni venivano a fare ripetizioni da me, che ero pure secchiona oltre che nipote di…, non mi buttavano più in fontana ed ero diventata una di loro. Senza farmi le canne però.

L’ultimo bacio che gli ho dato è stato anche il primo. Ed era troppo tardi perché lui se ne accorgesse. Era il 23 aprile del 1993. Nonno mi aveva lasciata.

Quel giorno mi sono resa conto di non avergli mai detto grazie. Per avermi insegnato tutto senza paternali. E senza mai alzare la voce. Grazie per quel nostro piccolo segreto che non rivelerò neppure oggi per non tradire la nostra ultima telefonata.

Grazie te lo dico così, davanti a questi ospiti che studiano e lavorano nel solco del tuo insegnamento: un patrimonio di tutti.

E il grazie che pronuncio – per quel che può valere – è quello di una nipote per il nonno, il mio.

Grazie.

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