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House of Cards e il machiavellismo politico dall’Italia agli Usa

In Aprile, un film del 1998, ora forse un po’ dimenticato, Nanni Moretti si scagliava con sarcasmo contro il pressapochismo della nuova classe dirigente dell’Ulivo: “Io me li ricordo negli anni Settanta a Roma, alla Fgci, i giovani comunisti romani stavano tutti i pomeriggi davanti al televisore a vedere Happy Days, Fonzie […] e questa è la loro formazione politica, culturale, morale…”. Ora qualcuno, pensando alle esibizioni di Matteo Renzi (che tuttavia non fu mai comunista) con il giubbottino di pelle, sarebbe tentato di definire profetica la battuta del regista romano, ma è più probabile che essa registri invece una sempre maggior contiguità fra la nostra cultura d’élite e la matrice pop che Tv e social media producono tumultuosamente e che sta diventando parte integrante del discorso politico, a partire dalla (quanto mai abusata) nozione di storytelling.

Se i giovani politici italiani, ai tempi, si sono formati su Happy Days, ora a quanto pare non possono fare a meno di House of Cards e soprattutto del suo protagonista incontrastato, il sulfureo presidente Frank Underwood, magistralmente incarnato da un Kevin Spacey che già ai tempi di I soliti sospetti sbozzava nel suo Keyser Söze un villain di metafisica purezza. Se Renzi o Enrico Letta sono affascinati da questo modo di rappresentare la politica, la serie ha ottenuto in patria l’apprezzamento di nomi anche più importanti, a partire da Barack Obama e Hillary Clinton.

Che cosa distingue, dunque, Frank Underwood dai tanti sociopatici amorali che le serie americane hanno negli anni consegnato all’adorazione del pubblico, dal gangster Tony Soprano allo spregiudicato dottor House, dal serial killer Dexter al Walter White di Breaking bad? Quello che hanno potuto osservare di più gli spettatori, e dunque anche i nostri politici, è il dichiarato machiavellismo esplicitamente applicato ai meccanismi della politica. Il pensiero di Machiavelli appartiene alla cultura mondiale e ancora adesso il suo Principe è una delle letture fondamentali per chi studia Scienze politiche negli Usa. Tuttavia, bisogna ricordare che la ricezione delle idee e del personaggio nel mondo anglosassone è molto diversa da quella del mondo latino.

Mentre per noi il segretario fiorentino è tanto nomini nullum par elogium, secondo il suo epitaffio in Santa Croce, la diffusione delle idee machiavelliane nella politica del nord Europa fu molto più fosca e controversa. Il drammaturgo Christopher Marlowe, uno dei principali rivali di Shakespeare, apre la sua pièce L’ebreo di Malta, composta verso il 1589, con un prologo recitato da Machievel in persona. Questi annuncia di non essere morto, ma di aver invasato il Duca di Guisa, ispirato il massacro di san Bartolomeo in Francia e ora di essere arrivato fin lì per fare altri danni. Il machiavellismo era già proverbialmente un contagio diabolico tipico dei Paesi cattolici, ma che rischiava di contaminare anche quelli protestanti. Qualche anno dopo Marlowe, anche Shakespeare mette in scena un personaggio machiavellico: Riccardo III, il principe che per sete di potere e cattiveria non si ferma davanti alle azioni più abiette: “Non v’è animale tanto feroce che non conosca un briciolo di pietà. […] Ma io non la conosco e perciò non sono un animale”.

Proprio grazie all’interpretazione di Spacey, che ha trionfato all’Old Vic di Londra con la sua versione modernizzata della tragedia shakespeariana, il machiavellismo politico è approdato pienamente nella serie Tv americana, peraltro seguendo il remake di una serie britannica a sua volta tratta dal libro di Michael Dobbs, consigliere di Margaret Thatcher. Non è difficile riconoscere la costante ispirazione shakespeariana del personaggio di Underwood che ammicca a Riccardo iii e, nel rapporto con la first lady Claire, a Macbeth. Sono shakespeariane anche le rotture della quarta parete, durante le quali il politico si rivolge direttamente al pubblico per ammaestrarlo sulle proprie presenti o future nefandezze.

Perché è importante sottolineare che il machiavellismo di Underwood arriva in scena attraverso il filtro di Shakespeare? Perché gli eroi tragici possono essere anche completamente negativi, ma la loro rappresentazione innesca una riflessione morale negli spettatori. Underwood è lo specchio tragico della hybris americana, il manipolatore in cui migliaia di persone possono riconoscere la propria stessa sete di potere. Commette il male per il male, anche in prima persona, senza nascondersi dietro la ragion di Stato, e senza alcuna giustificazione psicologica. Obama non dovrebbe essere come Underwood, ma quando ne fa l’imitazione su Twitter si arrende al fatto che in parte lo è, e questo può essere un ammaestramento morale per se stesso, per i suoi elettori e persino per i suoi detrattori. C’è un po’ di ombra in ognuno di noi, un’ombra che dobbiamo conoscere per non esserne posseduti.

Machiavelli in Italia conosce tutt’altra fortuna: da Gramsci a Craxi, ha rappresentato per il Paese il modello di un progetto autorevole serio, ma sempre impraticabile per eccesso di cinismo o carenza di coraggio. L’Italia non è mai stata un impero e per un Paese così disintegrato la prospettiva del Principe rimane ovviamente un’utopia politica. Per gli italiani, politici e non, cresciuti in un Paese dove la commedia, da Dante a Monicelli, è il genere dominante, il machiavellismo tragico di Underwood ha un fascino utopico, non distopico. Renzi o Letta possono citare Underwood senza apparire inquietanti, e noi cittadini quasi sperare che in loro ci sia un briciolo di quella spietata e razionale visione del potere che anima il personaggio di Spacey. In un’Italia dove non è mai chiaro se i politici “ci fanno o ci sono”, la nostra gestione del potere, con buona pace di Machiavelli, pur non essendo priva di congiure e fratricidi, difficilmente riesce a sembrare seria e tragica, ma trascolora indefinitamente nel grottesco e nell’orgiastico. Un Frank Underwood italiano non potrà che essere simile all’Andreotti del Divo di Paolo Sorrentino. I motivi del trionfo di Underwood da noi sono diversi da quelli del suo trionfo negli Usa e forse proprio questa inerente assenza di dramma (Happy Days docet) è la vera tragedia della politica italiana.

Articolo pubblicato sulla rivista Formiche


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