All’indomani della tragedia di Bruxelles, sono veramente molti gli interrogativi politici e filosofici che appaiono all’orizzonte. Questa constatazione nasce, in primis, dalla natura assolutamente inedita, e quindi senza precedenti, della minaccia in corso, nonché dall’incisività con cui il fondamentalismo islamico riesce a tenere sotto scacco i governi e a mettere a ferro e fuoco le nostre città.
Due rilievi preliminari sono di importanza fondamentale: il primo che siamo di fronte ad una frontiera di guerra diversa ed estranea a tutte le categorie politiche che abbiamo conosciuto fin qui; la seconda che siamo impreparati, o almeno si è dimostrato tale certamente il Belgio, a fronteggiare, e ancor più a prevenire, gli attentati. Tutto ciò è rilevante, e molto si è scritto infatti in merito.
Una questione più stringente è invece quella della composizione sostanziale delle nostre società, e della possibile o impossibile compatibilità tra nutrite comunità islamiche, presenti soprattutto nei Paesi del nord Europa, ma anche del nord Italia, con i criteri di cittadinanza che costituiscono la nervatura strutturale della vita comune.
Lo studioso di Lovanio Felice Dassetto sulla Stampa, come riportato da Formiche.net, ha sollevato opportunamente il tema, parlando delle caratteristiche molto liberali del Belgio, unendo la considerazione di merito allo scarso impegno, per non dire spesso all’omertà, dell’area del cosiddetto Islam moderato a collaborare e condannare quegli atti. Perché, insomma, musulmani di seconda e terza generazione restano silenziosi e non intervengono oltre il normale cordoglio e la consueta solidarietà contro queste bestiali nefandezze?
La risposta alla domanda si innesta all’interno dell’idea politica di società che l’Europa occidentale ha creato e concepito.
Esistono, in buona sostanza, due tipi di convivenza civile che sono maturate nella nostra visione del mondo. Una, quella prevalente, si appoggia su principi individuali di cittadinanza, eretti attorno all’assioma illuminista, dominante anche nella concezione socialista, secondo cui il perno di tutto è il singolo e la sua libertà, i suoi diritti soggettivi assoluti. Ciò giustifica la manica larga nel permettere associazioni multiculturali di ogni tipo, considerati fattori autonomi di auto organizzazione della realtà personale. Il risultato di questa visione è fallimentare, ed è il punto debole di un mondo europeo che vive della sindrome dell’uguaglianza formale, della fratellanza universale e della totale autonomia associativa, non preoccupandosi poi dei ghetti che nascono nelle periferie emarginate.
Sono tali i tre cardini dello Stato di diritto, i quali non prevedono però la presenza di gruppi culturali come quelli islamici che non sentono sempre come propria l’appartenenza nazionale, non comprendono facilmente il tipo di valore che ha partecipare collettivamente al bene comune e considerano il territorio una sottrazione di spazio e non una condivisione geopolitica di impegni civili con gli abitanti nativi.
Un secondo modello occidentale di intendere la cittadinanza è fondato invece su principi comunitari, nei quali non è il singolo individuo ma la società nel suo insieme che conferisce e riconosce nell’ordine e nella pace i diritti individuali.
Quest’ultima è stata sempre, specialmente negli ultimi due secoli, la concezione conservatrice, minoritaria ma costantemente influente, in Europa. In quest’ultimo senso, la cittadinanza è legata alla capacità vera di integrazione, che non richiede l’uniformità confessionale, ed è perciò compatibile teoricamente con un pluralismo religioso, ma che tuttavia concede diritti ai nuovi arrivati solo sulla base di una reale, sostanziale e dimostrata, compatibilità con i propri valori di partenza, trasmessi di generazione in generazione.
Permane anche in questo caso, certo, la distinzione tra Islam moderato e fondamentalista, come esiste sempre quella tra persone perbene e criminali selvaggi, ma l’integrazione e la condivisione non sono necessariamente basate solo sulla non pericolosità di alcuni gruppi islamici, ma sulla vera esistenza di uno spazio pubblico partecipato da tutti. Noi dobbiamo ritrovare in noi il coraggio di dire che la cittadinanza si regge sull’essere parte di un popolo, sul poter condividerne la storia e i sentimenti degli altri, e non sulla formale legittimazione individuale a stare in un territorio da parte di soggetti che hanno conquistato il diritto di viverci.
Il terrorismo ha dimostrato che il nostro modello relativista non garantisce che piccoli gruppi facciano parte automaticamente della società in cui risiedono e lavorano. Questa debolezza, creata soprattutto dal buonismo astratto e interessato di alcune forze politiche, permette all’Isis di reclutare e fare esplodere contro di noi l’emarginazione creata dentro di noi.
L’individualismo, malattia dell’Occidente moderno, non corrisponde, difatti, all’unica nostra tradizione culturale e politica.
Oggi è indispensabile, a tal fine, ripartire dal nostro ‘essere europei’, dando una stretta interna a chi vive con culture non Occidentali in Occidente, rivendicando il valore del nostro modello identitario di società, non per questo meno democratico e meno europeo di quello relativista e individualista.
Per i conservatori è giunto il momento di una maturazione culturale, di uscire dai tabù estremisti e volgari, dando un contributo politico vero alla rinascita di una visione etica alta, europea e radicata in principi democratici come ordine e identità, senza i quali finiremo per essere un appendice dell’Islam moderato e del suo strumento violento di attacco alla nostra civiltà liberale.
Il terrorismo ha sconfitto, ad ogni buon conto, solo un modo falsamente progressista di vedere le cose, dimostrando che la nostra cultura va compresa bene, va rispettata e può essere salvaguardata unicamente in maniera diversa da come stiamo facendo. Si tratta cioè di recuperare e rappresentare valori tradizionali, presenti soprattutto nella mentalità popolare, che ci fanno esistere come civiltà continentale da molto prima dell’Unione Europea e della sua crisi attuale, facendoci restare noi stessi anche nel futuro.