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La dottrina di Obama e la Libia

Negli ultimi giorni Barack Obama ha trovato il modo per spiegare con chiarezza, più o meno direttamente, che la situazione in Libia non è al centro delle sue priorità. Lo ha fatto indirettamente colpendo con intensità la Somalia, dove un gruppo islamista che si chiama Shabaab è considerato dal Pentagono la principale minaccia terroristica africana (cioè prima dello Stato islamico in Libia) e lo ha detto direttamente rilasciando un’importante intervista uscita sull’Atlantic giovedì mattina.

L’INTERVISTA

Jeffrey Goldberg, uno dei giornalisti di punta del magazine americano, ha firmato la lunghissima intervista, intitolata “La dottrina di Obama”; una conversazione sulla visione del mondo dell’attuale inquilino della Casa Bianca sotto forma di saggio da ventimila battute. Max Fisher del sito Vox l’ha definito il miglior articolo scritto sull’argomento. Si parla di politica estera, del rapporto cordiale e gentile che il presidente americano ha con Vladimir Putin, del poco amore per i sauditi (accusati di aver radicalizzato l’Indonesia, il più popoloso paese musulmano del mondo); si scopre anche che John Kerry, il segretario di Stato, non era stato messo al corrente della decisione definitiva della Casa Bianca di ampliare i bombardamento contro l’Isis anche alla Siria, e che Obama non ha grande considerazione dell’establishment degli Esteri di Washington, e inoltre, come ha sottolineato Newsweek il centro della questione sono i difficili rapporti del presidente con Hillary Clinton.

HILLARY VS BARACK

L’aspetto della differenza di vedute tra Obama e Clinton, molto calcata da Goldberg, è stata particolarmente ripresa a livello globale per due ragioni. La prima è perché Clinton è la principale candidata a vincere i caucus delle primarie dei democratici e dunque correre per la Casa Bianca: è dunque una questione di politica interna, molto forte in una intensa fase elettorale. La seconda è che buona parte di quelle divergenze sono legati al dossier Libia, ossia all’intervento militare del 2011 per destituire il rais Muammar Gheddafi: una questione invece di politica internazionale, visto che la crisi libica s’è ripresentata a distanza di appena cinque anni e ha ripercussioni a carattere regionale e muove gli interessi di diversi Paesi alleati agli Usa (per esempio, Italia, Francia, Regno Unito).

OBAMA E LA LIBIA

“È un cazzo di casino”, ha confessato al giornalista dell’Atlantic il presidente. Il racconto di Obama dell’intervento del 2011 si proietta sulla situazione attuale e spiega le divisioni interne all’amministrazione su Medio Oriente e Magheb, con gli interventisti da un lato (occupato dall’allora segretario di Stato Clinton) e dall’altro i pragmatici o gli “ottimisti hobbesiani” come Goldberg ha definito Obama, uno che “professa ottimismo che il mondo si pieghi verso la giustizia” e che ha più volte rimarcato che la sua dottrina sta nel “don’t do stupid shit”, ossia il pragmatismo di non fare “shit” se non necessariamente richieste. A distanza di cinque anni, Obama ritiene l’azione in Libia un fallimento, sebbene rivendica anche all’Atlantic di aver fatto tutto bene, ossia c’era la copertura dell’Onu, una strategia poco dispendiosa, non erano previste truppe di terra e dunque il numero dei caduti in battaglia sarebbe stato bassissimo; punto importante per un presidente che vinse le elezioni evocando il ritiro dai due fronti dei guerra, Iraq e Afghanistan. Aggiunge Obama: “Evitammo un grande numero di morti e feriti civili e quella che quasi sicuramente sarebbe stata una guerra civile lunga e sanguinosa. E nonostante tutto questo, la Libia è ancora un disastro”. Stando al pensiero del presidente, appare chiaro perché sulle vicende libiche Obama adesso preferisce lasciare il comando in mano agli Stati europei.

GLI ALLEATI

In realtà in base al pezzo dell’Atlantic anche ai tempi Washington, che era diviso tra il Pentagono che chiedeva di non immischiarsi e un gruppo di politici capitanati dalla Clinton che invece s’erano convinti che la cosa giusta fosse bombardare la Libia, voleva passare in seconda fila. Il fatto che Parigi e Londra spingessero era un buon gioco per Obama, che si sarebbe alla fine solo accodato per vincolo di alleanza, senzà scomodare troppo l’elettorato più pacifista (o meno interventista). In particolare “Obama assecondò di buon grado il desiderio di mettersi in mostra dei francesi, perché permetteva agli Stati Uniti di «avere un coinvolgimento da parte della Francia che comportava minor costi e rischi per noi»”, scrive l’Atlantic.

GLI “SCROCCONI”

Obama ha descritto il comportamento degli alleati europei con il termine “free riders”, “un termine che in economia indica quegli individui che beneficiano di risorse, beni o servizi senza pagare per riceverli: si è riferito a coloro che nel dibattito politico americano sostengono l’intervento militare – che sia per presunti scopi umanitari o per motivi legati alla sicurezza nazionale – per ottenere consensi, senza però essere poi disposti a fare dei sacrifici per raggiungere l’obiettivo”, ha spiegato il Post. Per Obama uno dei problemi attuali della Libia è stata l’assenza dell’impegno europeo nel processo di transizione di potere nella fase successiva alla caduta di Gheddafi: “Credo ci sia motivo per essere critici: credevo che l’Europa, data la vicinanza con la Libia, sarebbe stata più coinvolta nella gestione della situazione dopo il conflitto” ha detto all’Altantic.

IL PARALLELO CON L’ATTUALITÀ

È una situazione analoga all’attuale: da diversi mesi alcuni Stati invocano un intervento contro lo Stato islamico in Libia, ma per ora nulla si è mosso, a parte qualche missione specifica con raid aerei e intelligence a terra. I governi occidentali aspettano la formazione di un governo unitario per ricevere l’invito ad intervenire, da poter utilizzare come scusante se l’operazione dovesse rivelarsi di nuovo “un disastro”, ossia il proxy per poter dire ce lo hanno chiesto, abbiamo dovuto farlo, sapevano che sarebbe stato difficile.

LA DOTTRINA IN UN ESEMPIO

Con la consapevolezza dei risultati del 2011 in Libia, Obama scelse di fare di test propria due anni più tardi in Siria, quando il regime gassò gli abitanti di Damasco superando una delle linee rosse poste proprio dalla Casa Bianca. Avrebbe dovuto, in teoria, bombardare il regime siriano, oppure come sosteneva parte della sua a Amministrazione (a cominciare dai dipartimenti di Stato e Difesa fino ai vertici dell’intelligence), ma fece un passo indietro, affidando a Mosca il compito di trattare sul disfacimento dell’arsenale chimico siriano. La scelta di Obama, a conti fatti non ha prodotto risultati migliori di quella su cui dice all’Atlantic di essere stato spinto in Libia. Già nel 2014 in un’altra intervista al magazine americano, Hillary Clinton criticò quella scelta: “Il non aver costruito una credibile forza in aiuto delle persone che originarono le proteste contro Assad ha lasciato un grande vuoto che ora stanno riempendo i jihadisti”. Qual è l’attuale linea rossa  in Libia? Un grande attentato in Europa? E dopo, cosa farà Washington?

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