La relazione annuale presentata al Parlamento dal Dipartimento che coordina l’attività dei servizi segreti è inequivocabile: l’Italia non solo è un obiettivo sensibile, ma, per il ruolo nazionale e per il carattere specifico di simbolo della cristianità, il nostro Paese vede crescere di giorno in giorno il pericolo di diventare concretamente bersaglio di possibili attentati. I rischi hanno una matrice articolata, complessa, talvolta perfino indecifrabile. Da un lato, «la minaccia strutturata che promana direttamente dalle organizzazioni terroristiche»: Isis e Al Qaeda, in competizione tra loro; dall’altro, «la minaccia puntiforme riferibile all’universo composito di elementi autoctoni ed autoreclutati, che rendono quest’ultima ancora più concreta e attuale».
In altri termini, la nostra penisola si rivela preda di possibili incursioni provenienti sia dall’estero, Libia in testa, e sia dall’interno, come un territorio fragile che, per l’alta concentrazione di criminalità, è humus di probabili reclutamenti di cellule armate. Interessante è anche il rilievo che il resoconto dà dell’immigrazione, privilegiando la gravità della rotta balcanica come fulcro di possibili infiltrazioni di terroristi jihadisti tra i migranti, magari con la complicità di eterogenee e radicate organizzazioni mafiose locali, sempre più ramificate a livello internazionale.
Tralasciando le sfide nuove, costituite dal cyber spionaggio e dalla relativa strategia di sicurezza, di cui ha parlato ieri Formiche.net, alcune osservazioni di politica generale possono essere estratte dalle oltre 130 pagine di questo interessante e importante paper.
Il mondo appare una rete interconnessa dove convivono, intrecciate tra loro e in movimento perpetuo, criminali e persone perbene, cittadini e migranti, fondamentalisti e semplici persone di religioni diverse. Sant’Agostino avrebbe parlato di due Città distinte, una buona e una cattiva, fuse insieme. La realtà complessiva delle società, pertanto, ormai sempre più anche di quella italiana, non è controllabile solo con gli strumenti classici di pubblica sicurezza. Non esiste più una netta distinzione comunitaria tra interno ed esterno, e perciò i confini diventano linee di separazione labili e relative, travalicabili facilmente come le strisce bianche che colorano le nostre strade.
Due soluzioni paiono, in definitiva, anacronistiche e inefficaci: quella degli ‘Stati chiusi’, ossia della cesura blindata delle frontiere; e quella del ‘non Stato’, vale a dire del non controllo del territorio. Nel primo caso si opterebbe inutilmente per aggravare le situazioni umanitarie, finendo per costruire barriere di sabbia destinate ad essere sgretolate dal mare degli spostamenti migratori. Nel secondo si rinuncerebbe al governo legale, sottoponendo la società civile ad un’ineluttabile resa incondizionata alla forza e alla violenza del male.
La vera ed unica chance è costituita invece, e il documento di cui parliamo lo mostra bene, dal rafforzamento dell’intelligence come strumento statale, e dunque governativo, di attuazione conoscitiva e di prevenzione operativa della sicurezza anti criminale. In un globo dominato dai social media, in cui le relazioni tra persone sono sciolte dai legami e dai limiti spaziali, la conoscenza è direttamente proporzionale alla sicurezza e la prevenzione è l’arma migliore di cui munirsi sul territorio. Perciò i legami interstatuali tra i servizi sono a livello nazionale la vera risorsa da salvaguardare, resa ancora più preziosa dalla forma invece internazionale delle minacce terroristiche illegali sia religiose che politiche.
In un mondo insicuro e aperto, insomma, l’incolumità dei cittadini può essere difesa e protetta dalla violenza e dai pericoli che incombono solo con un’attrezzata e altamente professionalizzata azione dell’intelligence, coordinata a più livelli.
In tal modo gli Stati continueranno ad essere qualcosa di diverso rispetto a clan o gruppi di potere, senza diventare dei fortini chiusi in cui nessuno sarebbe pronto ad abitare, neanche il patetico protagonista del Truman show.