C’è qualcuno che riesce a stare peggio di Silvio Berlusconi per la crisi aggravatasi in quello che fu il centrodestra, ed è ormai diventato una riedizione del caotico campo di Agramante. Che fini per perdere davvero la testa, decapitato.
Peggio dell’ex cavaliere di Arcore, e proprio a causa dei guai politici del suo ex antagonista, e mancato partner dell’ambiziosa riforma costituzionale tentata all’epoca del primo governo di Romano Prodi, è Massimo D’Alema. Che pochi giorni fa, di ritorno da un viaggio in Iran, si era lasciato intervistare da Aldo Cazzullo, del Corriere della Sera, per lanciare al presidente del Consiglio e segretario del suo partito, Matteo Renzi, un messaggio di questo tipo: attento a cambiare i connotati del Pd per guadagnare gli elettori tradizionali di Berlusconi, perdendone peraltro molti di più a sinistra, perché “la destra è confusa ma esiste”. E – continuava il messaggio di D’Alema – potrebbe riprendersi i voti perduti, magari parcheggiati nell’astensionismo, prima di quando non si creda.
In un centinaio di ore il centrodestra ancora targato bene o male Berlusconi era destinato a passare dalla “confusione” ottimisticamente diagnosticata da D’Alema alla “guerra civile” certificata sul Corriere della Sera dal notista Massimo Franco commentando la rottura consumatasi fra lo stesso Berlusconi, la Lega di Matteo Salvini e la destra ex o post-finiana sulle candidature contrapposte di Guido Bertolaso, Giorgia Meloni, Francesco Storace e forse altri ancora a sindaco di Roma.
È una “guerra civile”, questa del centrodestra descritta da Massimo Franco, che si è sovrapposta a quella appena certificata sullo stesso Corriere della Sera dall’editorialista Antonio Polito a carico del Pd commentando il putiferio che D’Alema era riuscito a provocare fra i compagni con l’intervista a Cazzullo contro Renzi e gli “arroganti” e “stalinisti” che lo affiancano alla guida del partito e del governo.
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Per capire l’idea che D’Alema si era fatta dell’inferno verso il quale Renzi gli sembrava destinato nell’importante appuntamento elettorale di Roma, dovete sapere che di recente, in procinto di partire quella volta per l’Africa, egli confidò ad un compagno nei corridoi della Camera, dove si era recato per una banale operazione bancaria, la convinzione che il centrodestra berlusconiano avesse ormai in tasca il Campidoglio con la candidatura di Alfio Marchini. Che D’Alema peraltro conosce bene, e non solo per i trascorsi comunisti dei nonni e genitori del giovane imprenditore romano, essendone stato di frequente ospite d’onore a pranzo: una volta, dopo la caduta del primo governo Berlusconi, insieme con Filippo Mancuso, fresco di nomina a ministro della Giustizia di un governo simil-tecnico affidato dall’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro a Lamberto Dini, ex ministro del Tesoro e già direttore generale della Banca d’Italia.
Fu un pranzo, quello, durante il quale il povero Mancuso, come mi confidò dopo qualche anno, ricavò l’impressione che D’Alema condividesse i suoi dubbi sulla conduzione delle indagini Mani pulite a Milano. Dove il Guardasigilli mandò poi gli ispettori scontrandosi con i magistrati del posto e con Scalfaro, sino a rimetterci il posto, sfiduciato al Senato con i voti decisivi del partito guidato proprio da D’Alema. Che evidentemente trovò esagerata l’interpretazione data da Mancuso ai suoi umori in quell’incontro conviviale. Ma sono fatti ormai lontani, seppure significativi per capire la realtà italiana.
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Torniamo piuttosto ai giorni nostri, e alle prossime elezioni capitoline. Tramontata, per la confusione nel centrodestra a lui già nota, l’ipotesi di una candidatura di Marchini concordata con Berlusconi, il buon D’Alema deve avere coltivato l’impressione, prima dell’intervista a Cazzullo, che anche Guido Bertolaso potesse garantire a Berlusconi una buona scalata al Campidoglio, competitiva con quella di Roberto Giachetti, preso in giro, diciamo così, dallo stesso D’Alema per un fotomontaggio che lo rappresentava alla guida di un risciò per le strade di Roma con Renzi al posto del cliente.
Ora che la candidatura di Bertolaso è stata indebolita, a dir poco, dalla “guerra civile” esplosa nel centrodestra, D’Alema e quanti ne condividono umori e convinzioni stanno forse chiedendosi se a trarne beneficio, salvo sorprese della candidata grillina Virginia Raggi, non sarà proprio, oltre a Giachetti, il Pd di marca e ambizione renziana. Quello cioè proteso più a inseguire i voti dei disorientati elettori del centrodestra che a recuperare o trattenere quelli altrettanto disorientati di sinistra, o di centrosinistra, come preferisce dire Pier Luigi Bersani per attenersi al nome o alla concezione della sua “ditta”.