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Chi e perché ostacola la liberalizzazione dei diritti musicali

La serie tv Vinyl diretta da Scorzese – in onda su Sky – ci racconta un interessante spaccato nei rapporti tra l’industria discografica e gli artisti musicali, dove i contratti sono spesso trappole per fregare economicamente il musicista di turno; nella serie ad essere fregati sono i Led Zeppelin. Qualche mese fa, anche il famoso songwriter James Taylor ha raccontato, in un’intervista, di quando diciottenne cedette per un sandwich tutti i suoi diritti alle case discografiche.

Il tema è di estrema attualità anche a casa nostra. Lo si sta discutendo, in questi giorni, nell’ambito del disegno di legge sulla concorrenza, grazie ad un emendamento, presentato dalla senatrice Pd Elena Fissore. La proposta prevede, come in tutti Paesi europei, che anche le rappresentanze di artisti musicali possano gestire i propri compensi e non, come avviene oggi, esclusivamente attraverso i produttori discografici. L’emendamento vede ovviamente contraria l’industria discografica.

Da sempre, infatti, i discografici hanno voluto far passare l’idea che l’artista o l’autore fossero eccentrici personaggi da mettere sotto “tutela amministrativa”. Questa necessità di tutela, viene esercitata attraverso dei monopoli con la tesi che sia indispensabile e più conveniente avere un unico soggetto che negozi per conto di tutti. Detto in altri termini: non è utile avere un mercato libero, pena il caos! Questa posizione sta diventando il vero e proprio mantra unificante di questi mesi, ripetuto da soggetti diversi, in più occasioni. Il presidente della SIAE (noto produttore discografico) ha sostenuto, in una recente audizione alla Camera dei deputati, che il monopolio SIAE è necessario e che la liberalizzazione “cugina” dei diritti di ritrasmissione non stia funzionando e crei solo caos e conflittualità.

Pochi giorni fa l’ha scritto anche il presidente dell’industria discografica FIMI che, attraverso la propria società consortile SCF, amministra in esclusiva i diritti sia dei produttori discografici che degli artisti. La lettera della FIMI, indirizzata ai senatori della Commissione Industria, chiede di respingere l’emendamento presentato dalla senatrice Fissore. Nella lettera, il presidente della FIMI ha motivato la contrarietà all’emendamento dicendo che la gestione esclusiva in capo ai discografici funziona bene perché grazie ad essa migliaia di artisti hanno incassato oltre 66 milioni di euro nell’ultimo quinquennio.

L’emendamento sarebbe dunque sbagliato e la liberalizzazione pure. Al coro del caos non si sono sottratti quelli che nella vicenda sono le controparti degli artisti cioè coloro che devono corrispondere i compensi: Radio e Televisioni. Chi come me, in rappresentanza di artisti e di nuovi operatori, ha proposto all’allora governo Monti la liberalizzazione e ha raccontato in un libro l’intera vicenda parlamentare, sente il dovere di intervenire, guardando i fatti.

Per primo, va ricordato che in Italia vige una clamorosa discriminazione tra gli artisti e gli altri aventi diritto. Mi spiego. Sono liberi di negoziare direttamente i produttori cinematografici, sono altrettanto liberi i discografici, sono liberi i grandi utilizzatori come Mediaset, SKY, FOX e la RAI nel difendere i loro diritti di proprietà intellettuale. Lo sono “persino” gli attori. Tutti, quindi, tranne i cantanti e i musicisti. A questo proposito, ricordo che vi sono già numerosi Ordini del Giorno e Risoluzioni parlamentari che impegnano il governo a modificare la norma. Non vi è, quindi, nulla da discutere, semmai c’è solo da ottemperare come appunto propone la senatrice Fissore. La libertà di scelta non è solo una questione di equità giuridica ma sostanziale.

Infatti, a fronte dei 66 milioni di euro incassati dagli artisti, i produttori, grazie all’esclusiva, ne hanno incassati circa 150 milioni di euro, più del doppio! Questa cifra, nella lettera della FIMI, non è indicata ed è la reale ragione per voler conservare questo privilegio: un enorme vantaggio economico.  Riguardo al presunto caos e alla “conflittualità” causata dalla liberalizzazione avvenuta sui diritti di ritrasmissione, evidenzio questi fatti. Quando, per gli artisti, operava il monopolio IMAIE non esisteva alcun sistema di regole e, per tale ragione, IMAIE – non riuscendo a distribuire oltre 120 milioni di euro di diritti – fu sottoposto a procedura fallimentare. Sistema di regole che, invece, oggi esiste proprio grazie alla liberalizzazione: chi vuole operare deve rispettare oltre trenta requisiti, ivi incluso il rispetto della L.231 sulla responsabilità d’impresa. Il caos vigeva allora, un “caos calmo”, sopito per decenni, perché conveniva a pochi in danno di migliaia di artisti.

Il passaggio da un assetto monopolistico ad un mercato regolato ha sempre generato, nei primi anni di vita, strumentali contenziosi, guerriglie, sgambetti e tanto altro, spesso sollevati proprio dall’ex monopolista; le si provano tutte pur di mantenere il dominio del mercato. Tutti noi ricordiamo quanto è avvenuto nella telefonia fissa e mobile, ad esempio, sulla portabilità del numero telefonico, idem nel settore della distribuzione dell’energia, per non dire in quello dei trasporti dove si chiudono cancelli per scoraggiare i passeggeri del competitor ad utilizzare quella compagnia.

Di casi come questi ce ne sono centinaia negli armadi dell’antitrust in tutta Europa. E non sono di questi giorni i contenziosi legali tra RAI, SKY e Mediaset sui diritti di ritrasmissione per i propri programmi trasmessi in chiaro? Qualcuno, per questa ragione, rimpiange il monopolio RAI o I tempi della SIP? Non credo. Sarebbe, quindi, opportuno che le “confindustrie” di settore riflettessero di più, prima di affrettarsi in rituali difese corporative. Non si può essere pro concorrenza a corrente alternata, secondo il cappello che si ha sulla testa. Gridare al caos non è un valido argomento, altrimenti l’economia si fonderebbe solo su Monopoli e, per giunta, di Stato.


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