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Perché non condivido i timori di Marco Travaglio sulla normalizzazione dei magistrati

Se lo scrive lui, Marco Travaglio, che i magistrati li conosce e li frequenta per ormai antica consuetudine professionale, sapendone raccogliere o intuirne gli umori, specie nelle aree più esposte o attive, si potrebbe essere tentati di credergli. Che sia in corso cioè un pianificato tentativo del presidente del Consiglio e degli amici – fra i quali il vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, Giovanni Legnini, eletto a fine settembre 2014 trasferendosi al Palazzo dei Marescialli direttamente dal Ministero dell’Economia, dove era sottosegretario – di mettere ai vertici delle Procure e degli altri uffici giudiziari toghe di fiducia.

Sarebbe in corso, insomma, una gigantesca opera di normalizzazione della magistratura, consentita o tollerata dalle stesse rappresentanze associative, stanche di combattere o, peggio ancora, intimidite dai metodi spicci del presidente del Consiglio e segretario del Pd. Che ne ha ridotto le ferie e le difese dai rischi della cosiddetta responsabilità civile, rimasta a lungo sostanzialmente preclusa, a dispetto dei risultati di un referendum del 1987, per una troppo generosa legge firmata dall’allora ministro della Giustizia Giuliano Vassalli.

Sempre secondo le ricostruzioni o i timori del direttore del Fatto Quotidiano, si starebbe tornando a vele più o meno spiegate al vecchio modello delle Procure intese come “porti delle nebbie”. Un modello che eccelleva, in particolare, a Roma. Dove non si arrivava ai vertici degli uffici giudiziari senza il consenso, o la protezione, del politico dominante del posto, che fu a lungo Giulio Andreotti. Come a Bari non si arrivava ai vertici senza il gradimento di Aldo Moro, sino a quando le brigate rosse non lo sequestrarono e uccisero, nel 1978. A Napoli senza il gradimento di Antonio Gava, a Firenze senza Giovanni Spadolini, che pure veniva eletto a Milano. E a Milano senza il gradimento di Bettino Craxi. Sino a quando il sistema politico non saltò e non esplosero le Procure anomale, rispetto alle vecchie abitudini, di Milano e di Palermo. Che divennero gli avamposti della lotta alla corruzione e alla mafia con tale e tanto vigore da ribaltare i vecchi rapporti di forza.

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Ancora alla fine del 1990, poco più di un anno prima cioè dell’esplosione di Tangentopoli, a Milano le cose andavano così tanto ordinariamente che per la sostituzione del mitico e anziano Adolfo Beria di Argentine alla Procura Generale della Corte d’Appello il candidato più forte apparve subito Francesco Saverio Borrelli, allora capo della Procura di prima istanza. Oltre ai titoli professionali, tutti di prim’ordine, anzi primissimo, egli disponeva del gradimento spontaneo, non cercato, dei vertici socialisti: non di Bettino Craxi in persona, che non aveva mai avuto l’occasione di frequentarlo, ma dei craxiani che da amministratori locali e dirigenti di partito ne avevano visto e apprezzato sul posto il lavoro, come l’allora sindaco Paolo Pillitteri e il predecessore Carlo Tognoli. Ma soprattutto aveva l’apprezzamento del ministro socialista della Giustizia Claudio Martelli. Un apprezzamento peraltro ricambiato, avendo Borrelli parlato di Martelli, anche dopo le dimissioni impostegli dal coinvolgimento nelle indagini giudiziarie sul finanziamento illegale della politica, come di un eccellente guardasigilli, fra i migliori.

La pratica di Borrelli andò tanto avanti che il procuratore venne ascoltato nella fase istruttoria dalla competente commissione del Consiglio Superiore della Magistratura, come lo stesso Borrelli raccontò a suo tempo a Marcella Andreoli, autrice di una sua biografia pubblicata nel 1998 dalla Mondadori col titolo “Direttore d’orchestra”. Ma all’ultimo momento, nel mese di marzo del 1991, gli fu preferito Giulio Catelani per ragioni e con modalità che sorpresero le aspettative del capo della Procura ambrosiana.

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Le ragioni e modalità di quella nomina mi furono confidate dopo qualche anno, ad Hammamet, da un Craxi ormai condannato e convinto di essere involontariamente e disgraziatamente incorso anche in un risentimento di Borrelli. E’ una confidenza che non riferirei, nella irreparabile assenza di Craxi, se non ci fosse ancora un uomo capace di confermare o smentire l’accaduto: l’allora guardasigilli, ripeto, Martelli. Che per il suo ruolo istituzionale dovette partecipare a quelle decisioni.

Accadde, in particolare, che Craxi fu contattato dall’allora presidente del Consiglio Andreotti per sentirsi chiedere se fosse proprio convinto della candidatura di Borrelli sostenuta dai suoi amici di partito. Craxi cadde dalle nuvole chiedendo se e quali contro-indicazioni ci fossero. Andreotti gli disse allora che Borrelli, pur validissimo magistrato, avrebbe avuto l’inconveniente di salire di grado nello stesso distretto giudiziario, con una continuità anomala di accusa fra primo e secondo grado, e in una prospettiva altrettanto anomala di lungo potere nella stessa postazione, mancandogli molto alla pensione per avere poco più di 60 anni.

Craxi trovò ragionevoli le obiezioni e condivise l’opportunità di cercare un’altra soluzione, che lo stesso Andreotti auspicò in direzione di Catelani, se – precisò con un sorriso – al Consiglio Superiore della Magistratura se ne fosse condivisa la praticabilità. E ad essere nominato fu proprio Catelani, alla cui cerimonia di insediamento, se non ricordo male, lo stesso Andreotti non volle mancare. Egli durò sino al 1995, quando si dimise dopo non pochi passaggi polemici negli uffici giudiziari milanesi e controverse ispezioni ministeriali.

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Pagato anche questo debito, diciamo così, di testimonianza per fatti ormai lontani ma di effetti enormi, debbo dire che la normalizzazione descritta  o temuta da Travaglio nelle nomine in cantiere nel Consiglio Superiore della Magistratura non mi convince. Mi convincono di più invece le critiche dell’insospettabile ed esperto Luciano Violante al sempre più frequente ricorso delle autorità di governo, nazionali e locali, ai magistrati per ruoli di cui la politica dovrebbe rivendicare la competenza, non foss’altro per coerenza rispetto al “primato” più volte rivendicato a parole dal presidente del Consiglio Renzi.

Sembra una normalizzazione alla rovescia, quella lamentata da Violante, rispetto alla rappresentazione di Travaglio.

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