Mentre il comitato No Triv esulta per la dipartita di un’altra multinazionale di idrocarburi dal suolo italiano, a poco più di un mese dal referendum che il 17 aprile segnerà la vita di migliaia di lavoratori – circa 5.000 nella sola provincia di Ravenna e circa 3.000 in Basilicata, i due punti estrattivi più importanti d’Italia – i maggiori sindacati dibattono e si dividono sulla consultazione referendaria. “Di petrolio e gas ci sarà ancora bisogno, così si rischia solo di perdere posti di lavoro”, ha dichiarato il segretario dei chimici della Cgil, Emilio Miceli, a Repubblica. La novità dell’endorsement del sindacato guidato da Susanna Camusso verso il fronte dei Sì Triv, sta nel fatto che la Cgil non protegge solo la posizione dei lavoratori dei settore degli idrocarburi, ma difende anche la necessità di continuare a estrarre (perché altrimenti sarebbe uno spreco) e si domanda se, in questi casi di forte tecnicità, il referendum sia uno strumento adatto ed efficace. Non tutti, però, sono d’accordo in casa Cgil con questa impostazione di Miceli.
GLI EFFETTI DEL REFERENDUM
Il referendum di metà aprile farà scegliere agli italiani se non prorogare, una volta terminate, le concessioni per trivellare entro le 12 miglia marine. Nessun nuovo pozzo: le attività estrattive rimarrebbero le stesse. Le problematiche che contesta il fronte dei Sì Triv sono due: la disinformazione sulla materia referendaria – in quanti hanno dimestichezza con la coltivazione di idrocarburi? – e la mala informazione sulle attività estrattive – sicuri che trivellare vuol dire non investire su politiche green? -.
Come ha scritto Alberto Clò, docente di Economia applicata presso l’Università di Bologna e direttore della rivista Energia, su Formiche.net: “Il referendum No Triv è cronaca di una morte annunciata”, perché “come nei casi del nucleare del 1987 e del 2011 o in quello associato sull’acqua, gli elettori sono chiamati a esprimersi senza che sia fornita loro una ben che minima e corretta informazione sui quesiti referendari, senza la minima parvenza di dibattito, senza dar conto delle conseguenze che ne potrebbero derivare”. Il motivo? La disinformazione, sui numeri di chi lavora e sul come si lavora nel settore dell’estrazione degli idrocarburi, soprattutto per il livello di attenzione all’ambiente: “Per rendersene conto – continua Clò – basterebbe farsi un bel weekend a Milano Marittima e guardare dalla battigia le piattaforme al largo o andare all’annuale Festival delle cozze della vicina Marina di Ravenna, pubblicizzate ‘tra le più pregiate d’Italia raccolte alla base immersa delle piattaforme marine!'”.
Nel caso in cui vincessero i No Triv, ci sarebbe la cessazione immediata delle attività di estrazione alla scadenza delle concessioni, anche qualora sotto ci sia rimasto ancora un ingente quantitativo di gas metano. In pratica, avendo già i tubi posati sul fondo del mare, si dovranno chiudere i rubinetti delle piattaforme esistenti e, non potendo sopperire a questo fabbisogno con le fonti rinnovabili, l’export petrolifero aumenterà, causando un maggiore traffico di petroliere in giro per il Mediterraneo. Come ha scritto il direttore Clò: “Ci sarebbero gli stessi effetti del no al nucleare: la distruzione di un’intera industria – quella elettromeccanica – che contava decine e decine di migliaia di occupati, un gran numero di ingegneri, eccellenti capacità manifatturiere, un sapere scientifico e accademico tra i primi al mondo”.
LE DISCUSSIONI IN CASA CGIL
“In un mondo attraversato dall’ombra della guerra e con il rischio di un coinvolgimento fortissimo dell’Italia, sarebbe un errore strategico, fatale per il nostro paese vietare l’estrazione di idrocarburi”, afferma il segretario dei chimici della Cgil Emilio Miceli. Il primo problema da affrontare se vincesse il Sì (quindi i No Triv) sarebbe quello della sostituibilità. Miceli, infatti, afferma che si è ancora lontani “dal superamento dell’energia da fonte fossile”, anche se “noi tutti speriamo che gli impegni presi a Parigi vengano rispettati, perché il mondo è malato e si sente l’urgenza di una inversione di rotta che ha bisogno di nuove tecnologie per avverarsi. Ma – continua Miceli – possiamo permetterci un disarmo unilaterale?”. Quello dell’esponente della Cgil è però un attacco anche verso la legittimità del referendum: “È giusto affidare temi complessi, come quello dei titoli concessori utili alle estrazioni di petrolio e di gas, a uno strumento come il referendum? È legittimo diffondere il dubbio che l’Italia sia un paese nel quale, oggi per la burocrazia e domani per il costo dell’estrazione, non convenga investire per colpa di una legislazione emotiva?”, conclude Miceli. Non tutti, comunque, in casa Cgil sono sulla linea di Miceli. Infatti un appello con quattrocento firme di quadri e dirigenti della Cgil per dire stop alle trivelle e votare Sì al referendum del 17 aprile circolano negli ultimi giorni in ambienti sindacali della confederazione guidata da Susanna Camusso. Tra i firmatari ci sono due segretari generali di categoria – Stefania Crogi della Flai (agroindustria) e Domenico Pantaleo della Flc (scuola, università e ricerca) – ma sono tantissimi i segretari regionali e delle camere del lavoro, specialmente da Piemonte, Campania, Calabria, Puglia e Basilicata.
I Sì TRIV DELLA CISL
Cisl e Uil hanno deciso di schierarsi a difesa dei lavoratori, ma anche di chi vuole diffondere una corretta informazione sui temi di sicurezza ambientale ed energetico. Il sindacato guidato da Annamaria Furlan, ha diffuso una lettera firmata Femca Cils (Federazione Energia Moda Chimica e Affini alla Cisl) nella quale vengono presentate “le ragioni a sostegno di un sistema produttivo aggressivamente attaccato ed a difesa di una silenziosa ed operosa occupazione, già dolorosamente compromessa”. Partendo dai dati sull’import di idrocarburi – “l’importazione italiana dei combustibili fossili è del 90% ” – la lettera della Cisl, afferma che “l’Italia deve fare i conti con la inadeguatezza delle reti distributive. In particolare per quanto riguarda l’inserimento di fonti caratterizzate da elevata aleatorietà e non programmabilità, quali ad esempio l’eolico e il fotovoltaico”, perché “salvo casi particolari, l’azienda deve rimanere allacciata alla rete elettrica di distribuzione, per sopperire alla carenza della fonte rinnovabile, nel caso questa non sia disponibile”. L’energia fossile ancora non è sostituibile e se si vuole forzare il percorso, l’unica via è quella dell’aumento dell’export. “La severa normativa nazionale in materia di sicurezza, salute ed ambiente – continua la lettera Femca Cils – è tra le più rigorose al mondo, obbligando il titolare alla individuazione dei rischi derivanti dalle operazioni ed alla loro mitigazione, tanto da renderle accettabili”.