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Vi spiego perché a Roma i conti non tornano

Quanto vale Roma Capitale? Quanti soldi lo Stato nazionale è disposto a spendere per finanziarne le funzioni? La risposta la fornisce il Commissario straordinario Francesco Paolo Tronca, il prefetto venuto da Milano, con una precisione tutta meneghina. Nessuna colpa, per carità. Ecco cosa si legge nella Nota integrativa al bilancio comunale per l’esercizio 2016 – 2018: “I valori scaturenti dall’analisi elaborata in sede di predisposizione del Piano di Riequilibrio della spesa corrente hanno condotto a definire: un disquilibrio strutturale pari a 550 milioni; il riconoscimento di extra-costi sostenuti dall’ente per l’esercizio delle funzioni di città Capitale d’Italia, pari a 110 milioni; la necessità di un riequilibrio strutturale per il delta differenziale di 440 milioni, da realizzare nell’arco del triennio 2014”.

Capito bene? CENTODIECI MILIONI: questo è quanto lo Stato nazionale è disposto a riconoscere. Sembrerebbe una boutade. Purtroppo, invece, è l’assoluta verità. Quella somma equivale al valore di un centinaio di appartamenti in Prati. Due o tre palazzi umbertini a Via Avezzana: dove abitano Massimo D’Alema e Nicola Zingaretti. E nulla più. Per avere un termine di paragone prendiamo il “Grand Paris project”, il depliant patinato firmato da Nicolas Sarkozy, nella sua vecchia veste di Presidente della Repubblica. Dieci ambiziosi obiettivi: difesa del suo status di “ville monde” per contendere il primato di città come Tokio o New York; luogo della conoscenza e della ricerca per competere sul piano internazionale; una vita culturale ancora più intensa; un completo ripensamento del suo sistema dei trasporti pubblici; il rafforzamento dei grandi centri urbani; una maggiore integrazione tra i vari distretti; l’ambiente come risorsa; interventi sulla Senna e sui suoi tributari per connettere al meglio la città; potenziamento della governance per rendere più armonioso e coerente il suo sviluppo. Ed alla fine una Grand Paris sempre più sostenibile.

Il tutto per la modica cifra di 35 miliardi solo per trasporto pubblico: 21 per la nuova metropolitana senza conducente e 14 per ammodernare quella già esistente. Quei 220 kilometri sottoterra, che sono quattro volte esatto quelli della città di Roma. Un libro dei sogni? Forse. Ma la realtà è che il Parlamento francese nel 2010 ha approvato la legge relativa (loi n. 2010 – 597 del 3 giugno). E subito dopo è stata costituita la società, interamente pubblica, che dovrà realizzare il progetto. Somme a disposizione: circa 22,625 miliardi. Di cui 2,9 miliardi destinati prioritariamente al miglioramento della rete esistente. Un modo intelligente per convincere i parigini che disporranno, quanto prima, di un servizio migliore. E, quindi, saranno disposti a sostenerne almeno una parte del relativo onere finanziario.

Se questi sono i dati di riferimento è meglio lasciar perdere. Roma rinunci pure a fregiarsi del titolo di Capitale. Riportiamola a Torino per far felice Matteo Salvini o a Firenze di cui Matteo Renzi è stato sindaco. Nella storia d’Italia, entrambe queste città hanno svolto, in passato, questo ruolo. E che volete che siano 150 anni di fronte ai due millenni e passa della storia di Roma. Sarà sempre la capitale della cristianità. Anzi già che ci siamo, perché non torniamo a Papa Re. I benefici per i suoi abitanti, che sostengono il peso prevalente dell’onere per il mantenimento della città, sarebbero immediati. Non più auto blu che strombazzano per le vie della città. Recupero di palazzi prestigiosi: Montecitorio, Palazzo Madama, il Quirinale, Palazzo Koch (Banca d’Italia), Palazzo dei Marescialli, le sedi dei vari Ministeri, molti dei quali collocati in veri e propri gioielli architettonici. E via dicendo.

Una provocazione? Certo, ma il paradosso poggia sempre su un dato di realtà. E la realtà di Roma è soprattutto l’oppressione fiscale, rispetto a tutte le altre città. Oltre il 50 per cento del bilancio 2016 – 2018 è dato da imposte. Circa 2,5 miliardi, di cui il 16 per cento (300 milioni circa) a carico di chiunque abbia un reddito ed il 77 per cento (2,8 miliardi) che gravano, seppure a vario titolo, sugli immobili. Dati che non tengono conto dell’imposta regionale Irpef: anch’essa a carico dei soliti noti. L’aliquota di quest’ultima è pari al 3,3 per cento. Il suo gettito può essere valutato in più di 1,1 miliardi: per un totale complessivo di 1,4 miliardi. A Milano, tanto per rimanere sul piano dei confronti, quest’ultima imposta è poco più della metà (1,73 per cento). Nonostante il reddito medio dei milanesi sia superiore di circa un 30 per cento. Come si vede, scegliere la strada suggerita, in termini costi – benefici, può essere la più conveniente.

Si può porre rimedio a questa situazione estrema? In teoria sì. In pratica è molto più difficile. Troppe incognite sono sul tappeto. Occorre innanzitutto un Governo che comprenda quanto sia importante investire sulla sua Capitale. Che non ha solo un valore simbolico, specie nel momento in cui il mito europeo sembra virare dall’ipotesi federativa a quella confederale. Dove i singoli Stati nazionali conservano tutte le loro prerogative ed il confronto, a livello sovranazionale, avviene per il tramite delle singole cancellerie. Una Capitale sporca – basta vedere le foto delle sue metropolitane interamente coperte da graffiti – con servizi inesistenti. Dove ciascuno – specialmente gli stranieri – è libero di comportarsi come meglio crede, in assoluto dispregio  di qualsiasi regola. Una realtà del genere è assolutamente respingente.

Nel linguaggio dei dotti,  si parla molto della sua scarsa internazionalizzazione. “Roma non è, infatti, considerata una localizzazione attraente dalle imprese multinazionali”. Secondo alcuni report internazionali (European cities monitor, 2011) sulle 36 città prese in considerazioni, occupa il trentacinquesimo posto. Né la situazione migliore se si considerano le preferenze espresse dalle grandi imprese italiane. Certo: c’è Milano, a svolgere un ruolo di supplenza. Ma la dimensione di quest’ultima è pari a quattro quartieri della Capitale. Un piccolo territorio adatto solo come hub per piccole e medie imprese. Considerata la scala internazionale.

Se la scarsa lungimiranza governativa è solo espressione dei limiti delle elite nazionali, ciò che risulta più intollerante è, tuttavia, l’assenza di iniziative – al di là di qualche retorico proclama – da parte dei rappresentanti politici della Capitale. Da questo punto di vista hanno fallito i vecchi partiti, incapaci, per ragioni complesse legate al quadro internazionale, di avere una comune visione sul destino dell’Italia. Ma hanno fallito le stesse personalità che, dagli anni ’90 in poi, si sono assunti l’onere di governare la città. L’elezione diretta del sindaco doveva portare ad un cambiamento di registro nei rapporti con il Governo centrale. Risultati decisamente deludenti, se si esclude un qualche piccolo finanziamento in più. Che non ha alterato il quadro generale. Cambierà qualcosa con le imminenti elezioni? Difficile fare previsioni.

Nessun candidato ha alle spalle strutture forti di partito. Questo può essere un male. Ma anche un bene. Dipenderà tutto dagli elettori. Se nella competizione politica sapranno scegliere quello dotato della maggiore personalità. E del carattere necessario per poter interloquire senza complessi di inferiorità con chi finora ha fatto finta di non sentire. Partita difficile, ma non disperata. Nella sua lunga storia, Roma è molte volte caduta e molte volte risorta. Speriamo solo che lo spirito di Flavio Ezio – il grande vincitore di Attila – possa illuminare l’animo dei più.



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