Sono giunto a Bruxelles solo alcune ore prima dell’attentato. Un colpo di fortuna. Resto chiuso in casa, come il resto dei cittadini, in una città sempre più cupa. Immobile salvo il suono lacerante delle sirene. Intanto, dai media, il susseguirsi dei bollettini di guerra. Dall’aeroporto alla metropolitana, nel cuore della città politica. La stazione di Maelbeck a due passi dalle grandi istituzioni comunitarie. Ore d’angoscia, in attesa di possibili eventi che non lasciavano presagire alcunché di buono. Intanto le prime sconvolgenti immagini. Il ripetersi di una tragedia, dopo i fatti di Parigi, che non è detto ne sia l’ultimo atto. Sempre che l’Occidente non prenda, finalmente, atto dell’esistenza di quella guerra, che si denuncia nei momenti del dolore, per poi dimenticare il giorno dopo le esequie delle vittime innocenti.
La cosa più sconcertante è il dilettantismo. Sia delle forze dell’ordine – la cosa che più preoccupa – sia degli stessi terroristi. Il che aumenta lo sconcerto. Per chi, come noi, è stato spettatore degli “anni di piombo” non può capacitarsi. Il nemico da abbattere, allora, era la “potenza geometrica” delle BR. Oppure l’efficienza micidiale della “Rote fraktion” tedesca. Professionisti addestrati nei campi della vecchia RDD. Gli islamisti, che hanno compiuto il loro tirocinio di morte in Siria e dintorni, a loro confronto, sono dei piccoli nani. Maneggiano e confezionano rudimentali, per quanto mortiferi, ordigni esplosivi. Ma quanto a logistica e strategia militare sono degli analfabeti.
Si può programmare un attentato come quello di Parigi, prendendo un’autovettura a noleggio? Con tanto di documenti e d’assicurazione. Ve lo immaginate le BR che commettono in simile errore? Tutti i loro mezzi di trasporto era stati rubati tempo prima, conservati in depositi segreti ed ulteriormente camuffati. Nell’attentato all’aeroporto di Bruxelles si prende addirittura un taxi. Si impone al conducente di non toccare i bagagli, creando ulteriori sospetti. Per cui, dopo l’esplosione, diventa facile individuare i responsabili. Anche se due su tre si sono sacrificati nel nome di Allah. Ma questo conta relativamente. L’identificazione dei responsabili per un servizio di intelligence minimamente efficiente rappresenta la chiave per individuare la rete di supporto. E quindi per sgominarla.
Se questo non avviene, è perché quei servizi di sicurezza sono un colabrodo. Lo dimostra l’assurdo caso di Salah Abdeslam. Il criminale più ricercato d’Europa è vissuto mesi e mesi nel suo quartiere. Arrestato per caso, non è stato interrogato, ricorrendo ai metodi più persuasivi. Non ha quindi parlato. Ed il risultato di questo lassismo sono stati altri 31 morti e centinaia di feriti. Vite spezzate, mentre l’Occidente si trastulla con interrogativi esistenziali. Per non parlare poi di quanto traspare rispetto agli altri componenti la rete. Gente da tempo individuata. Eppure liberi di circolare, di organizzarsi e trasformarsi, di nuovo, in demoni, portatori di morte.
Un Belgio, quindi, surreale, per quanto riguarda le più elementari regole di sicurezza. Dispiegate sempre il giorno dopo. Quando ormai la frittata è stata fatta. Per capire ciò che avviene in quella che, pomposamente, viene chiamata la capitale d’Europa, bisogna passare per Molenbeek. Il quartiere arabo a due passi dal centro di Bruxelles. Per raggiungere il luogo dell’attentato bastano 15 minuti a piedi. Il quartiere nacque per concessione del Re Leopoldo alla dinastia saudita. Uno scambio destinato a dimostrarsi particolarmente oneroso. Nel quartiere sorgono ben 22 moschee. Ma molte sono clandestine, alloggiate negli scantinati o nei salotti di qualche abitazione. Vi predicano imam salafiti: il ramo più estremista ed intransigente del variegato mondo dell’islam. Non è quindi un caso se da questi centri sono partiti fin dal 2001 i più pericolosi e famigerati terroristi.
Più che un quartiere, Molenbeek è una vera e propria enclave, in cui vivono emigrati di Paesi diversi: Marocco, Tunisia, Libia, Siria, Iraq e più in generale il Nord Africa. Oltre 100 mila persone, che non vedono di buon occhio gli occidentali e gli stessi belgi. Durante il ramadan è difficile per questi ultimi passare per quelle strade con una sigaretta accesa. Il respingimento è pressoché immediato. Come tutti i quartieri di Bruxelles, Molenbeek gode di una grande autonomia amministrativa. L’attuale sindaco è un liberale, ma il vice è un esponente della seconda generazione di immigrati. Del resto i rapporti di forza sono quelli che sono, con una maggioranza musulmana. E’ il grande fiume, in cui nuotano indisturbati i pesci dello jiadismo. Il che spiega, più di mille indagini sociologiche, la sua natura di santuario. Qualcosa di simile a quanto avveniva in Vietnam, durante gli anni della “sporca guerra”.
Logica vorrebbe che i controlli della polizia fossero discreti, ma pervasivi. E invece si verifica esattamente il contrario, come mostrano i mille fatti di cronaca degli ultimi anni. Qui i ricercati si muovono alla luce del sole, protetti da una solidarietà impenetrabile. Per contenere il fenomeno sarebbe necessario poter disporre di un’intelligence eccezionale. Ma Bruxelles, compreso il Belgio intero, è una mela divisa in due: da una parte i valloni, dall’altra i fiamminghi. I primi d’origine germanica e celtica. I secondi francofoni. Da anni percorsi da pulsioni separatiste, sempre difficili da contenere. Due lingue, due culture, due storie che, a mala pena, riescono a convivere. La stessa Capitale si articola in due parti distinte: segnate dalla prevalenza degli uni o degli altri.
E’ quindi inevitabile che le forze dell’ordine, nella loro organizzazione, risentano di questa frattura. Abituate a guardarsi in cagnesco, fanno ben poco per garantire le azioni di contrasto contro il nemico comune. Non solo del Belgio, ma dell’intera Europa. Qualche tempo fa, il ministro degli Interni belga ha provato a spiegare da dove nascano le grandi difficoltà, nel garantire il rispetto dell’ordine democratico. “Bruxelles – ha confessato – è una città relativamente piccola, con 1,2 milioni di abitanti. Eppure abbiamo sei dipartimenti di polizia e 19 diverse municipalità. New York è una città con 11 milioni di persone. Quanti dipartimenti ha? Uno solo”. Un’ammissione d’impotenza. Alla quale è, giunto il momento di farvi fronte. Se Bruxelles vuole continuare ad essere “veramente” la capitale d’Europa, è necessario che sia l’Europa a farsi carico dei problemi della sicurezza. Occorre, in altre parole, che le forze di polizia locali siano inserite in un’organizzazione più vasta con la diretta presenza di quelle degli altri Paesi. Un comando unificato, dotato dei necessari mezzi di contrasto, per combattere quella che è divenuta una vera e propria guerra. Sono le parole di Manuel Valls, il premier francese. Se le parole hanno ancora un significato.
ECCO GLI APPROFONDIMENTI DI FORMICHE.NET SU ISIS E GLI ATTENTATI A BRUXELLES:
Tutte le sciocchezze su Isis, Bruxelles, Servizi e Corano. Il corsivo di Stefano Cingolani
Bruxelles, la guerra di Isis e l’eutanasia dell’Europa. L’analisi di Benedetto Ippolito
Chi finge di non vedere la guerra di Isis. Il commento di Gennaro Malgieri
Vi racconto la fiacchezza morale che ci rende inermi davanti a Isis. Il commento di Corrado Ocone
Attentati a Bruxelles, come combattere con efficacia il terrorismo. L’analisi di Ennio Di Nolfo
Salah, Molenbeek e il jihad made in Europe. Il post del sociologo Marco Orioles
Tutte le bufale circolate sui media dopo la strage a Bruxelles. La ricostruzione di Alma Pantaleo
Così Clinton e Trump si rintuzzano anche sugli attentati a Bruxelles. L’articolo di Giampiero Gramaglia
Attacco terroristico a Bruxelles, tutti i dettagli. La ricostruzione di Emanuele Rossi
Bruxelles, da “non luogo” a capitale del terrore. Il corsivo di Guido Mattioni
Vi racconto tutto di Molenbeek. La testimonianza di Enrico Martial
Perché il Belgio è considerato “la culla del jihadismo” in Europa. L’approfondimento di Rossana Miranda