Il mio amico Marcello Veneziani, che quell’ambiente lo conosce davvero, e gli vuole molto bene, anche se troppo spesso ne è stato ricambiato malissimo, come del resto capita su ogni versante politico a tutti gli intellettuali onesti, ha detto di Giorgia Meloni e della sua candidatura a sindaco di Roma che “è meglio una piccola destra incinta di futuro”.
Se Veneziani alludesse solo alla sola gravidanza fisica della sorella dei Fratelli d’Italia, avrebbe sicuramente ragione. Un figlio è di per sé il futuro di chi lo ha concepito e lo porta in grembo, di proprio –sarei tentato di aggiungere con i tempi che corrono- o per conto d’altri, di proprietà o in affitto.
Ma temo che Veneziani non volesse alludere, nel suo ragionamento politico, alla gravidanza fisica della giovane Giorgia Meloni, che gli sta chiaramente simpatica anche come aspirante leader della destra a lui cara, e rimpianta in articoli e libri di piacevolissima lettura. Temo ch’egli volesse alludere soprattutto ad una destra finalmente e politicamente incinta, appunto, di futuro. E qui mi permetto di dissentire da lui.
Non conosco personalmente la Meloni. Non ho mai avuto modo di scambiare con lei una parola. E non posso perciò dire se ha ragione Gianfranco Fini, che invece la conosce benissimo e l’ha lanciata in politica catapultandola prima alla vice presidenza della Camera e poi al governo, quando le dà della “sconclusionata” e della “presuntuosa”. Lo ha fatto parlandone, per esempio, in una intervista a Repubblica del 17 marzo.
Può darsi che il severo giudizio dell’ex leader prima del Movimento Sociale e poi di Alleanza Nazionale, ma anche ex vice presidente del Consiglio, ex ministro degli Esteri ed ex presidente della Camera, in un crescendo di cariche per le quali una volta non bastavano i soli 64 anni da lui compiuti il 3 gennaio scorso, sia più di risentimento che d’altro. Risentimento per non avere visto nel 2010 l’allora ministra della gioventù seguirlo anima e corpo nella esiziale rottura con Silvio Berlusconi, destinata a travolgere dopo un anno l’ultimo governo berlusconiano ma anche a non fare poi rieleggere Fini alla Camera, neppure come semplice deputato.
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Con o senza la presunzione e la sconclusionatezza rimproverategli dal suo ex leader di riferimento, la destra che vedo e sento arrivare sulle gambe dell’aspirante sindaco di Roma mi sembra ricca più di passato che del futuro immaginato e auspicato da Veneziani. Una destra peraltro che, prima ancora di Fini, era già stata dismessa da Giorgio Almirante, che l’aveva aperta a personalità e ad esperienze di origini politiche e culturali diverse dalla sua, anche se molti nel Movimento Sociale-Destra Nazionale continuavano a praticare il saluto romano e cedevano ancora al vezzo di indossare di tanto in tanto la camicia nera, non solo per i pellegrinaggi di rito a Predappio, sulla tomba di Benito Mussolini. Che del resto lo stesso Fini ancora nel 1994 definiva “il più grande statista del secolo” ormai declinante.
Fu una destra, quella di Almirante, che nel 1984 si mise in fila alle Botteghe Oscure per rendere omaggio alla salma di Enrico Berlinguer, senza lasciarsi trattenere dal comunismo del defunto e dei costruttori del palazzo che ospitava la sede del Pci. Costruttori e donatori – i Marchini – al cui nipote Alfio, per quanto dichiarato elettore del Partito Repubblicano nel crepuscolo della cosiddetta Prima Repubblica da lui vissuto da giovane, la Meloni ha sdegnosamente negato in quest’anno del Signore 2016 i caratteri quasi genetici di un candidato moderato al Campidoglio, commestibile politicamente per quel che rimaneva del centrodestra a Roma dopo la rovinosa conclusione della sindacatura del destrissimo Gianni Alemanno.
La destra che vedo camminare con le falcate di Giorgia Meloni mi sembra a trazione più leghista che sua, anche se la Lega a Roma secondo i sondaggisti di Berlusconi si aggira poco sopra l’1 per cento dei voti. E ci credo, dopo tutto quello che i leghisti, dai tempi di Umberto Bossi in poi, hanno sempre detto di Roma e dei romani, di origini controllate e non. La Lega, per quanti sforzi compia Matteo Salvini di farne dimenticare il passato, rimane quella della ruspa più che delle torri e degli ascensori. Una destra che vorrebbe parlare francese, come Marine Le Pen, la parricida politica del vecchio Jean-Marie, ma che alla fine continua a parlare il padano stretto.
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Può darsi che questa destra, proprio partendo da Roma, pur sconfitta nella corsa al Campidoglio dal renziano Roberto Giachetti o dalla grillina Virginia Raggi, in un ballottaggio nel quale peraltro la Meloni ha già dichiarato – udite, udite – che voterebbe per la Raggi e non per Giachetti, sia destinata a soppiantare quel che resta, a livello nazionale, del centrodestra ancora di conio berlusconiano. Un centrodestra, quest’ultimo, che Veneziani ha paragonato impietosamente, e forse non a torto, a “una vecchia balena spiaggiata ad Arcore dopo avere divorato i suoi figli”.
Può darsi, ripeto. Berlusconi d’altronde non si è risparmiato e non si risparmia errori, compreso quello – a mio avviso – di trasformare la candidatura capitolina di Guido Bertolaso nella linea del Tevere, come se fosse il Piave, anziché esortarlo a questo punto al ritiro volontario. E ciò per tornare al progetto della candidatura di Alfio Marchini, già da lui patrocinata, poi sostenuta dai centristi di Angelino Alfano, cui ogni tanto l’ex Cavaliere promette di non serbare “rancore”, e più realisticamente prevedibile per un ballottaggio competitivo con Giachetti o la Reggiani.
Purtroppo la destra meloniana a trazione leghista, scambiata da Veneziani per il “futuro”, preferisce essere quella di Tafazzi. O di chi per fare dispetto alla moglie si evira. O, lasciando da parte i genitali, preferisce fare coppia, in caso di emergenza, con Grillo piuttosto che con Renzi. Bel capolavoro.