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Aporie della mentalità progressista e del femminismo. A partire da alcuni fatti recenti

La proposta di rendere più castigate per legge certe pubblicità che espongono immagini di donne (ma ogni tanto anche uomini) in costumi discinti, se non proprio adamitici, per vendere prodotti attinenti (ad esempio di biancheria intima) ma anche non, riaffiora ogni tanto e a diversi livelli. Un tempo c’era la “buoncostume” che doveva vigilare a che non si oltrepassasse il “comune senso del pudore”. Quella soglia si è poi, come è noto, sempre più abbassata, fino quasi a scomparire, fin dagli anni Sessanta del secolo scorso. E i nuovi tempi, pur fra lo scandalo di qualche bigotto (o di piccoli gruppi revanscisti sempre più esigui), sono stati per lo più salutati come un’epoca di “liberazione sessuale”, in primo luogo della donna, e come tali celebrati dalle femministe e dal fronte progressista.

E in effetti assurde catene ereditate dal passato erano state in qualche modo spezzate.

Col tempo, però, molte femministe e gli stessi progressisti hanno cominciato a cambiare idea. Hanno parlato, in modo davvero semplicistico, di una “mercificazione del corpo”, del trionfo di un consumismo becero che rendeva oggetti le donne, di un modello femminile che veniva propagato attraverso la pubblicità e che era tutto curvato su stereotipi maschili (o maschilisti) che inchiodavano la donna a un ruolo fisso e subalterno. Inutile, obiettare a chi così pensava che le donne scelgono liberamente, nelle nostre società, come vestirsi o spogliarsi e, colte e intraprendenti quanto e più degli uomini, sono loro stesse a condurre il gioco della seduzione e del divertimento. Certo, la stessa pubblicità ama indugiare a volte su certi stilemi, ma lo fa non con obiettivi “manipolatori”, secondo le vetuste analisi francofortesi, ma per partecipare ad un comune gioco di creatività e espressione della nostra libertà.

Il fatto è che, a mio avviso, il femminismo è stato ad un certo punto colonizzato, almeno in parte, dal pensiero di sinistra, il cui scopo principale è stato sempre quello di strumentalizzare gruppi o individui ritenuti, a torto o ragione poco importa, “discriminati” e quindi in qualche modo “avanguardie” per instaurare un diverso tipo di società. Nulla più che il consumismo e la mercificazione, in quest’ottica, si prestavano a richiamare quell’odio per il mercato e il capitalismo che è stato per lungo tempo ed è tuttora il tratto più distintivo del pensiero progressista. Molte femministe, facendo marcia indietro, non si sono ovviamente accolte di questa strumentalizzazione restauratrice, o comunque si sono ritenute prima che donne persone di sinistra. Hanno perciò messo in discussione, in nome della comune battaglia antimercatista, le loro conquiste e hanno accettato di buon grado di farsi conservatrici e restauratrici, almeno in parte, dell’ordine bigotto che con le loro battaglie avevano contribuito a scalfire.

Col tempo, il tratto antimercatista e antioccidentale del pensiero di sinistra ha trovato però altre modalità di espressione, oltre a quella femminista. In primo luogo, quella multiculturalista volta ad un generico e irriflessivo rispetto (molto politically correct) delle “culture altre”. Tutte e comunque, sempre e in ogni caso. Una modalità espressiva che ha portato a relativizzare l’apporto delle singole culture alla storia dell’umanità e, soprattutto, a individuare “colpe” di ogni genere imputabili alla nostra civiltà occidentale. Fatte queste considerazioni e fattemi queste idee, non mi ha perciò stupito più di tanto la saldatura realizzatasi in quest’ultimo periodo, in seguito all’escalation del terrorismo islamico, fra femminismo e multiculturalismo.

L’esempio più significativo, in questo senso, mi sembra quello che arriva dalla Germania, ove il ministro della giustizia, il socialdemocratico Heiko Maass, ha proposto di eliminare, su suggerimento proprio di un gruppo di femministe, i nudi femminili dai cartelloni pubblicitari per non offendere o provocare gli islamici. La proposta, in verità, ha subito suscitato aspre polemiche e prese di posizione contrarie (a cominciare da quella del settimanale Spiegel). Non sono tuttavia mancate le voci favorevoli. Fra di esse, ci hanno informato i giornali, quella di Monica Cirinnà, la senatrice del Partito Democratico che è stata relatrice della proposta di legge sul cosiddetto “matrimonio gay”, distintasi per una posizione aperta su tutte le questioni in gioco e, in particolare, su quella dell’adozione.

Cirannà ha invitato a “liberare le città da tutte le immagini che usano il corpo delle donne in modo insultante”. Ora, la domanda che sorge spontanea, e che attesta in alcuni una certa sorpresa, è proprio questa: come può la rappresentante di una posizione progressista tesi a riconoscere la libertà e il diritto di ognuno a vivere la sessualità nel modo che ritiene più proprio, e che anzi esige che lo Stato certifichi con i crismi della giuridicità le unioni fondate su questa libertà; come può, dicevo, la stessa persona, voler limitare, sempre per legge, la libertà delle donne, e tendenzialmente di chiunque, ad esprimersi col proprio corpo nel modo che ritengono a loro più confacente? E che non sia solo realpolitik nei confronti del mondo islamico, come è forse nel caso del ministro Maass, ma anche questione di sostanza, lo attesta, nel caso della Cirinnà, l’aggettivo “insultante” da lei usato.

Lascio ad altri il compito di sciogliere fino in fondo questi nodi.

Ciò che qui mi preme sottolineare sono due elementi. Il primo, concernente il fatto che in molte delle posizioni in cui si crea una frizione fra mentalità multiculturale e femminismo è in gioco il conflitto fra istanze diverse e persino opposte che sono accomunate, nella cassetta degli attrezzi del “buon progressista”, solo dall’odio per questo nostro mondo liberale e occidentale. Il secondo, concerne invece il fatto che nella mentalità progressista, di cui la Cirannà è esempio, c’è sempre e comunque una tensione regolistica che vuole stabilire per legge ciò che delinea un ideale di “buona società” che, proprio perché considerata “buona” a prescindere, deve essere valida erga omnes e quindi imposta “per il loro bene” anche agli altri. C’è, in alte parole, nel progressismo, una sfiducia negli individui e nella loro libera interazione sociale che sfocia nella volontà di ogni cosa sistemare e regolare per scongiurare quel caos creativo che è invece il sale della democrazia liberale.

Voler politicizzare, e in questo senso anche giuridicizzare, ambiti di vita come la libera espressione della corporeità o la libera unione fra individui dello stesso sesso o di sesso diverso (così come, d’altro canto, le questioni etiche concernenti la vita e la morte, dall’aborto all’eutanasia), mi sembra, indipendentemente da ogni giudizio di merito, un movimento delle nostre società che è cresciuto in modo esponenziale negli ultimi anni.

È una tendenza da limitare o comunque non assecondare.

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