Martedì 19 e mercoledì 20 aprile il Centro studi americani, in collaborazione con l’Ispi, ha ospitato l’Iraq Crisis Conference, un ciclo di conferenze promosso dal Pafi – Peace Ambassadors for Iraq – “un’Organizzazione internazionale, non governativa, che si occupa di raggiungere la pace in Iraq e Medio Oriente”, si legge sul sito ufficiale.
Scopo degli incontri? Parlare di Iraq, in quanto terra di conflitto in cui si sta consumando una crisi di ampio respiro, umanitaria, economica, politica, istituzionale e, non da ultima, culturale. Nel corso della due giornate si sono tenuti quattro panel, in cui esperti del settore si sono confrontati sul tema della sicurezza, hanno dibattuto dell’impoverimento culturale causato dalle barbarie intenzionali dei terroristi, spiegato le problematiche legate alla diga di Mosul e, infine, proposto delle soluzioni per approdare alla tanto agognata pacificazione del Paese.
SICUREZZA E STABILITÀ
A introdurre il panel con cui si è aperto il ciclo di conferenze è stato Vincenzo Amendola, sottosegretario del ministero degli Affari esteri. Sottolineato il momento decisivo, ma allo stesso tempo contraddittorio, in cui si svolge l’incontro, date le vittorie riportate in campo militare contro lo Stato Islamico, e l’acuirsi della crisi politico-istituzionale irachena, Amendola ha invitato la comunità internazionale a guardare alle difficoltà interne irachene con maggiore attenzione. Amendola ha parlato, non a caso, di “situazione interna”, poiché la crisi multiforme che attanaglia l’Iraq è legata a problemi interni – troppo a lungo ignorati, ma che oggi necessitano di una risoluzione, pena il fallimento dello stato – ancor prima che alle minacce esterne. Il sottosegretario ha lodato l’impegno italiano in Iraq e invitato il nostro Paese a proseguire in questa direzione: riorganizzare le forze armate irachene, sostenere la difesa autonoma del Paese, supportarne lo sviluppo economico – essendo l’Italia il sesto partner dell’Iraq al mondo e il primo in Europa per interscambio commerciale – e preservarne il patrimonio artistico-culturale.
Dopo Amendola, è stata la volta dello sceicco Jamal al-Dhari (nella foto), Presidente del Pafi e sostenitore del rispetto del principio di autodeterminazione dei popoli in Iraq. Al-Dhari e la sua famiglia, membri della tribù al-Zoba, hanno a lungo combattuto in Iraq e per l’Iraq, prima durante la guerra contro la Repubblica degli Ayatollah, e poi per liberare il Paese da al-Qaeda.
Jamal al-Dhari è un uomo che alla sua terra ci tiene, e molto, ma questo non gli ha impedito di affrontare il dibattito con lo spirito critico che il contesto richiedeva. Al-Dhari ha descritto l’Iraq come un Paese “schiavo dell’occupazione ed esportatore del terrorismo”, ma allo stesso tempo incompreso. Secondo lo sceicco, infatti, nessuno a oggi ha parlato della vera radice del problema, o meglio dei problemi, che piagano l’Iraq, motivo per cui ancora si arranca, dentro e fuori il Paese, nel trovare una soluzione. Nello spiegare perché in Iraq sia questo lo stato attuale delle cose, al-Dhari non è ricorso a eufemismi per descrivere le responsabilità degli Stati Uniti. L’amministrazione a stelle e strisce, che ha invaso l’Iraq pur non avendo ottenuto alcuna legittimazione dalle Nazioni Unite – come ci ha tenuto a sottolineare più volte al-Dhari – ha contribuito a creare un sistema politico che con il tempo si è rivelato fatale per la stabilità del Paese. Tale sistema – ha commentato al-Dhari – non ha fatto altro che alimentare il settarismo, perché fondato su una spartizione del potere su base etnico-religiosa. Al-Dhari ha accusato gli americani anche di “essersi ritirati dall’Iraq lasciando i suoi confini aperti”, il che non ha fatto altro che facilitare “l’ingerenza iraniana e l’insorgenza della guerra civile”.
Nonostante le critiche alla strategia adottata dagli Usa, al-Dhari ha avuto parole dure anche per la classe politica irachena, corrotta e inetta, in cui figurano un Parlamento, “che a oggi non ha mai svolto le sue mansioni”, e “dei ministri che sono al servizio delle diverse fazioni ideologiche, piuttosto che del popolo iracheno”. Da qui, la piaga del terrorismo – di cui l’Iraq è esportatore – che nasce dalla corruzione e che spinge, a sua volta, i cittadini, insoddisfatti della gestione della res publica, a radicalizzarsi e a sostenere quelle organizzazioni terroristiche che fanno della narrativa populista un cavallo di battaglia.
Infine, l’intervento di Nicola Latorre, Presidente della Commissione Difesa del Senato. Come Amendola, anche Latorre si è soffermato sulla gravità della crisi interna irachena, la cui mancata risoluzione vanifica ogni tentativo di combattere il califfato di al-Baghdadi e il terrorismo islamico più in generale. Per questo Latorre ha sottolineato l’irrinunciabilità dell’iniziativa militare, purché coniugata a “un’azione politico-diplomatica condivisa” e che interessi non solo l’Iraq, ma anche la regione circostante.
LA RICONCILIAZIONE
Dopo aver dibattuto le cause della crisi, in occasione del panel conclusivo alcuni esperti del settore si sono confrontati sulle ipotetiche soluzioni.
Franco Frattini – ex ministro degli Affari esteri e oggi presidente della Sioi – si è interrogato sull’importanza della riconciliazione in Iraq. Scongiurare una paralisi ulteriore della politica irachena, evitare di perdere il controllo della governance delle comunità locali – e qui la storia dell’impero ottomano, troppo vasto, variegato e distante da Istanbul insegna – riconquistare l’attenzione degli investitori e, infine, garantire la sicurezza del Paese e, di riflesso, della regione circostante. Questi i motivi per cui è necessario ricompattare il panorama politico iracheno e sanare quelle fratture, da una parte insiste nel tessuto sociale iracheno, ma dall’altra esasperate e inasprite da un sistema politico che vira verso l’involuzione settaria. Per Frattini riconciliazione significa promozione di una “visione comune”, in assenza della quale combattere il terrorismo – nello specifico l’Is – sarebbe fine a se stesso. Sconfitti gli uomini di al-Baghdadi, infatti, l’assenza di una comunità di intenti porterebbe alla guerra civile o alla nascita di un fenomeno non distante dallo Stato Islamico. Infine, la trasformazione dell’Iraq in uno stato laico, “per evitare che l’identità religiosa continui a essere l’elemento sulla base del quale ridistribuire il potere”, ha commentato Frattini.
A prendere la parola per ultimo, Jamal al-Dhari, che nel panel inaugurale aveva descritto le cause della crisi irachena, e che nel suo intervento conclusivo ha spiegato cosa, a suo parere, bisognerebbe fare per pacificare l’Iraq. “Credo ci sia un futuro per l’Iraq”, ha esordito al-Dhari, sottolineando come la pace nel Paese significhi la pace in Medio Oriente, dal momento che l’Iraq, non solo alimenta un terrorismo che sembra non conoscere confini geografici, ma costituisce anche uno dei teatri – al momento il principale – in cui gli Stati circostanti, ma non solo, combattono una sleale guerra per procura. Lo formula proposta dallo sceicco – la stessa elaborata a Doha il 2 settembre 2015 in occasione di un incontro a cui hanno presenziato, insieme ad al-Dhari, rappresentanti dell’Iraq sunnita, il ministro degli affari esteri qatarino, Khalid bin Mohammad al-Attiyah, e rappresentanti ufficiali del Kuwait, Arabia Saudita ed emirati Arabi Uniti – prevede innanzitutto l’abolizione della distribuzione del potere su base confessionale. Poi, la riforma della costituzione irachena, poiché questa non hai mai veramente goduto del consenso popolare. Sebbene dopo la sua stesura fosse stato indetto un referendum nel 2005, molti iracheni si astennero dal voto, in quanto incapaci di approvare una legge fondamentale espressione di un sistema politico nel quale non si riconoscevano, perché figlio di un’invasione straniera.