Spero che si possa ancora esprimere rispettoso dissenso, senza rimediarsi azioni giudiziarie per diffamazione, dalla reazione urticante del nuovo presidente dell’Associazione Nazionale dei Magistrati, Piercamillo Davigo, al discorso fortemente e orgogliosamente garantista pronunciato da Matteo Renzi al Senato. Dove il presidente del Consiglio, elogiato invece sul Messaggero dal magistrato Carlo Nordio, ha replicato con durezza alle opposizioni che avevano illustrato le loro mozioni di sfiducia al governo sull’onda anche delle indagini della Procura di Potenza sulla vicenda petrolifera di Tempa Rossa.
A caldo o a freddo, come preferite, appena sentito in un ospitale studio televisivo de La 7 un passaggio saliente di quel discorso, impostosi all’attenzione generale per la protesta contro la venticinquennale “barbarie giustizialista” degli avvisi di garanzia scambiati mediaticamente e politicamente per condanne, Davigo ha così illustrato quello che il Corriere della Sera ha definito “lo stato dei rapporti tra politica e magistratura”: “Noi non abbiamo chiesto un incontro, e comunque lui non manifesta la voglia di parlare con noi”.
Per noi si deve evidentemente intendere l’associazione sindacale delle toghe. Per lui si deve naturalmente intendere Renzi. Del quale, d’altronde, fresco di designazione o elezione a presidente dell’associazione togata, Davigo era già tornato a lamentare quel “br..” sarcasticamente opposto alle minacce di sciopero o altre proteste levatesi al suo quasi esordio di governo, quando annunciò e dispose la riduzione delle ferie dei magistrati.
Non so, francamente, se Renzi davvero non abbia “voglia di parlare” con Davigo e gli altri dirigenti dell’Associazione dei magistrati, o con tutti i magistrati in genere: cosa della quale dubito assai, sia per gli elogi fatti alla categoria delle toghe proprio nel discorso al Senato, ricordandone in particolare le vittime nel coraggioso esercizio delle loro funzioni, sia per i suoi rapporti collaborativi, per esempio, con Raffaele Cantone, il magistrato che presiede l’Autorità anti-corruzione.
Ma altrettanto francamente non so se sia più discutibile la presunta mancanza di voglia di Renzi di “parlare” con i magistrati, o i loro rappresentanti, o la mancata richiesta di un “incontro” col presidente del Consiglio annunciata da Davigo. A meno che le sue parole non siano state disgraziatamente fraintese. Cosa della quale sarei il primo, per carità, a scusarmi anche a nome degli altri colleghi caduti nell’equivoco, non volendo finire in quella cartellina ironicamente e amichevolmente rimproveratagli di recente in televisione, sempre a La 7, da Paolo Mieli. Una cartellina nella quale il magistrato soleva collezionare già ai tempi di Mani Pulite, alla Procura di Milano, articoli di sfortunati giornalisti che potevano contribuire con i loro giudizi critici, e relative condanne a risarcimenti dei danni, ad una sua “serena vecchiaia”.
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Specie dopo la limitazione dell’immunità parlamentare volontariamente impostasi dalle Camere nel 1993 riconoscendo che se n’era sino ad allora abusato, non ha torto Davigo a dire a Marco Travaglio, in una intervista dopo il discorso di Renzi al Senato, che “le frizioni fra i poteri dello Stato sono la naturale conseguenza della loro separatezza e indipendenza”. E a ironizzare sull’unica condizione per vedere “tutti i poteri d’amore e d’accordo”: il ritorno “alla monarchia assoluta, dove il sovrano era sempre d’accordo con se stesso”.
Ma penso che Davigo esageri quando dà, magari a torto, l’impressione di stimolare la conflittualità, specie ora che è presidente dell’associazione della sua categoria, dicendo testualmente, sempre a Travaglio, mandandolo naturalmente in sollucchero: “Se non ci fosse tensione fra politica e giustizia, mi preoccuperei”. E diffida con pur sottile ironia dell’auspicio espresso da Giuliano Ferrara che proprio grazie alla sua “forza e rappresentatività” egli possa gestire una “pace” fra politici e magistrati. Grazie del “complimento” di potere e saper “tenere unita la magistratura”, ma “sbaglia di grosso – ha ammonito il togato – se qualcuno pensa che io sia qui per svendere la magistratura e la legalità”. Come, d’altronde, Renzi ha mostrato al Senato di non volere svendere la politica inducendo forse Davigo a dire, su domanda sempre di Travaglio, che fra questo governo e quelli che l’hanno preceduto, c’è “qualche differenza di linguaggio, ma niente di più” perché “nella sostanza una certa allergia al controllo della legalità accomuna un po’ tutti”.
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Il discorso di Renzi contro i 25 anni trascorsi di “barbarie giustizialista” dovrebbe far riflettere il mio amico Bobo Craxi, che ha voluto ieri confermare su Formiche.net la sua diffidenza, pur mista ad una certa “simpatia”, per il presidente del Consiglio, non vedendo la parentela politica col papà Bettino da me propostagli. Una parentela, in verità, negata anche da Renzi per conformistica adesione all’ingiusta demonizzazione del defunto leader socialista, che pure in vita lo anticipò di parecchio sulla strada del riformismo.
Che differenza invece, signori miei, fra Renzi e Silvio Berlusconi. Del quale mi sorprese nel 1994 non so se più l’ingenuità o l’astuzia di offrire la carica di Guardasigilli ad Antonio Di Pietro, ricevendone peraltro un fortunato rifiuto. Fortunato per i miei gusti, naturalmente. Era, d’altronde, lo stesso Di Pietro che alla Procura di Milano si offrì dopo qualche mese al suo superiore Francesco Saverio Borrelli, secondo rivelazioni dello stesso Borrelli, a interrogare l’allora presidente del Consiglio per “sfasciarlo” in una indagine appena aperta su di lui. E comunicata a mezzo stampa, prima che a Berlusconi venisse formalmente notificato un invito a comparire.