C’eravamo dimenticati dell’Afghanistan. Da un po’ di tempo l’attenzione è rivolta alle emergenze più vicine a casa nostra: l’Isis e il terrorismo, la Libia e l’immigrazione, la proposta italiana all’Ue di Eurobond per aiutare a casa loro le popolazioni in difficoltà e l’ennesima tragedia del mare con centinaia di vittime partite dall’Egitto (a proposito: non è che il presidente egiziano, Fattah al Sisi, ha ordinato di allentare i controlli sulle proprie coste come reazione alle pressioni per il caso Regeni?). Senza considerare situazione economica e polemiche sulle pensioni, inchieste della magistratura e trivelle varie. In questo mare magnum c’eravamo dimenticati dell’Afghanistan, finché il 19 aprile i talebani hanno fatto esplodere un camion-bomba nel centro di Kabul provocando (finora) 64 morti e 347 feriti.
Lo spazio che la stampa italiana ha dedicato all’avvenimento è stato considerevole solo perché quel giorno diversi giornalisti erano al seguito del ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, in visita nella capitale afghana, altrimenti sarebbe stato considerato solo l’ennesimo attentato in una terra lontana e ridotto a poche righe. Eppure lì abbiamo 950 militari nella missione Nato Resolute Support: nell’area di Kabul circa 50 uomini sono nello staff del Comando dell’operazione, gli altri sono a Herat dove l’Italia comanda un contingente interforze presso il Train Advise Assist Command West. Resteranno per tutto il 2016 come annunciato lo scorso ottobre dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi, su richiesta degli americani. Il 15 ottobre il presidente statunitense, Barack Obama, aveva infatti annunciato che dei circa 9.800 soldati americani presenti quest’anno ne sarebbero rimasti 5.500 anche nel 2017 (cioè dopo la fine del suo mandato): “La nostra missione militare in Afghanistan è finita, ma il nostro impegno con il popolo afghano no. Abbiamo fatto un grandissimo investimento per un Afghanistan più stabile, ma ora la sicurezza nel paese è ancora troppo fragile”, disse Obama. Renzi il giorno successivo confermò che era allo studio il prolungamento della permanenza italiana, ufficializzato poi a fine ottobre.
Anche in considerazione della presenza americana nel 2017, è difficile credere che si tratti dell’ultima proroga né, in generale, che le forze occidentali decidano di abbandonare l’Afghanistan al suo destino: le forze armate e la polizia di quel paese, nonostante gli sforzi degli addestratori (soprattutto italiani), non sembrano in grado di reggere l’urto dei talebani che lunedì 11 aprile hanno annunciato l’inizio della cosiddetta offensiva di primavera, l’annuale ripresa degli attacchi coincidente con l’inizio della bella stagione. Come ha sottolineato il Centro studi internazionali nel Geopolitical Weekly del 15 aprile, “all’annuncio dell’operazione, quest’anno chiamata ‘Operazione Omari’ in onore dello storico leader Mullah Omar, deceduto la scorsa estate, sono seguite le dichiarazioni del Ministero della Difesa che ha parlato di una pronta controffensiva da parte delle Forze di sicurezza afghane chiamata “Operazione Shafaq”, per cercare di arginare una minaccia che appare ormai sempre più pressante”.
Lo stesso 11 aprile un kamikaze si è fatto esplodere contro un minibus dell’esercito afghano a Jalalabad, nell’Est del Paese, causando 13 morti e 38 feriti; il 18 aprile un attacco ad alcuni check-point a Farah, nell’Ovest, ha provocato altri 11 morti; quindi il 19 aprile il camion-bomba a Kabul. Negli stessi giorni le forze afghane e occidentali hanno provocato un numero anche superiore di vittime ai talebani, ma certo la questione non riguarda l’aritmetica. “A oggi – scriveva ancora il Cesi nella nota settimanale – i talebani controllano o contestano alle Forze di sicurezza afghane circa 80 distretti su 400, non solo nelle tradizionali enclaves nel sud e nell’est del Paese, ma anche nelle regioni settentrionali, in passato storiche roccaforti delle forze di opposizione alla militanza. Oltre ai successi registrati questo inverno nella conquista della provincia meridionale dell’Helmand, i talebani hanno ormai rafforzato la propria presenza anche al nord”. Insomma, sembrano nuovamente di moda “vista la scelta di numerosi comandanti, che momentaneamente avevano abbandonato la causa talebana per unirsi alla cosiddetta branca Khorasan dello Stato Islamico, di tornare tra le fila dell’insorgenza”.
Il 20 aprile il capo di Stato maggiore della Difesa, generale Claudio Graziano, ha avuto incontri in Pakistan ai massimi livelli politici e militari. “Il Pakistan – ha detto Graziano – riveste un ruolo cardine per gli equilibri geopolitici regionali e per la crisi afghana” e “l’Italia continuerà a porre in essere ogni sforzo in termini di addestramento e assistenza alle forze di sicurezza afghane al fine di renderle in grado di assicurare autonomamente la sicurezza e la stabilità del Paese”. Il giorno precedente Gentiloni aveva incontrato il contingente italiano a Herat: “Dopo quasi 15 anni dal nostro impegno, fatto anche di tragedie, i frutti si vedono in modo evidente – ha detto il ministro -. La sfida del terrorismo è ancora aperta, ma grazie a voi si ricomincia a vivere civilmente e si creano le condizioni migliori per la costruzione di pace”. Detto che, in realtà, la flotta impegnata nella missione Enduring Freedom partì nel novembre 2001 ma che la prima missione di terra cominciò nel gennaio 2003 con gli alpini del 9° reggimento, in poco più di 13 anni l’Italia ha pianto 54 morti. Molti passi avanti sono stati compiuti, eppure con un terrorismo internazionale così aggressivo è quasi impossibile credere che nell’immediato futuro venga “restituita” ai talebani una nazione che diventerebbe rapidamente un vulcano in eruzione.