C’è un aspetto di cui si parla poco a proposito del prossimo referendum di ottobre sulla riforma costituzionale, fortemente voluta da Matteo Renzi. La revisione massiccia della Carta suprema appena approvata in via definitiva dalla Camera potrebbe porre un argine al debito pubblico. Come? Semplicemente costringendo lo Stato a spendere meglio i soldi finora utilizzati dalle amministrazioni periferiche e in futuro di nuovo di competenza di Roma. In gioco ci sono un mucchio di miliardi. Alla fine dell’anno vanno in scadenza 280 miliardi di titoli di stato, mentre nel triennio 2016-2018 scadono obbligazioni governative per complessivi 680 miliardi e nel periodo 2019-2047 per altri 1.125 miliardi: in circolazione, in tutto, ci sono titoli di Stato pari a 1.805 miliardi. Oggi è tutto sotto controllo, ma tra due anni lo scudo del QE della Bce non ci sarà più e spetterà dunque ai governi rispettare l’impegno a ridurre sulle generazioni future l’onere di un debito che ogni anno grava sulle casse pubbliche tra i 70 e gli 80 miliardi di euro.
Chi scrive da tempo sostiene che occorre intervenire subito sul debito pubblico, tagliandolo con massicce dismissioni patrimoniali e riducendo la spesa improduttiva. Ma occorrerebbe affrontare parte delle cause di esso, partendo dalla spesa delle regioni. E quale occasione migliore c’è di quella fornita dalla legge Boschi? Dal 2001, anno in cui il centrosinistra varò la riforma del Titolo V, siamo diventati un Paese a federalismo compiuto ma incompleto, visto che la devolution fiscale non c’è mai stata veramente. Spendeva l’amministrazione locale ma pagava la cassa centrale. Basta scorrere l’elenco delle materie delegate alla legislazione decentrata a inizio millennio per avere contezza di questa bolletta sconfinata. Tre pagine di competenze, circa 500 miliardi di euro di debito pubblico in più dal 2002 ad oggi. Forse non un caso. Come ricordato dallo stesso Presidente del Consiglio nel suo intervento conclusivo a Montecitorio prima dell’approvazione finale del testo, la nuova Costituzione prende dunque di mira i poteri (talvolta super) degli enti locali. Nella versione ancora in vigore, la prima legge d’Italia prevede invece una «concorrenza» legislativa delle Regioni su un elevato numero di materie. Ciò ha prodotto un’infinità di contenziosi alla Corte costituzionale, promossi da Regioni e governo, per stabilire ogni volta il perimetro legislativo dei due contendenti. Mentre il tempo passava, la spesa montava e le multinazionali scappavano. Basti pensare allo scontro Stato-Regioni sulle autorizzazioni per le trivelle in cerca di petrolio e gas lungo le coste, sfociato nel referendum di domenica 17 aprile.
Intanto però le potestà legislative sono state interamente riscritte nel nuovo articolo 117. Alle regioni resteranno (se gli italiani a ottobre diranno sì): rappresentanza delle minoranze linguistiche, pianificazione del territorio regionale e mobilità al suo interno, dotazione infrastrutturale, programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali. Una drastica potatura che dovrebbe incidere anche sulla capacità di spesa (e di indebitamento, che si riverbera poi sul debito complessivo) delle autonomie locali. Lo Stato tornerà piuttosto ad avere una potestà legislativa esclusiva, e non più concorrente su un mucchio di materie. Oltre ai poteri su politica estera, immigrazione, difesa, moneta, sistema fiscale, ordine pubblico, giustizia, ordinamento scolastico, previdenza sociale, politiche attive del lavoro, ordinamenti professionali e dogane, il potere nazionale legifererà di nuovo su infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione di interesse nazionale e relative norme di sicurezza; produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia; porti e aeroporti civili di interesse nazionale e internazionale; disposizioni generali e comuni sul governo del territorio; sistema nazionale e coordinamento della protezione civile; tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici; ambiente ed ecosistema; ordinamento sportivo; disposizioni generali e comuni sulle attività culturali e sul turismo. L’elenco è pedante, ma dieci righe spiegano più di cento commenti. Siamo di fronte ad una vera Controriforma a trazione palazzo Chigi. Spetterà poi ai governi essere più bravi nella spesa dei soldi pubblici di quanto lo siano stati in quindici anni i governatori. E questo è tutto da verificare.